Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha sconvolto l’Italia intera. Le indagini portate avanti dalle forze dell’ordine sul caso, insieme al contributo degli psicologi, hanno rivelato che Filippo Turetta ha ucciso la giovane 22enne per il suo desiderio di controllarla e per l’incapacità di accettare la fine della relazione.

Tag24 ha affrontato il tema della violenza di genere, approfondendo quali siano le ragioni che spingono un uomo a macchiarsi di femminicidio, il desiderio di emulazione, l’accanimento brutale contro i corpi delle vittime e la questione legata all’uso del termine “patriarcato” con la psicologa e psicoterapeuta Alexia Di Filippo.

Femminicidio, le motivazioni dietro la mente di un killer

D: Quali sono le motivazioni che conducono al compimento di un femminicidio? Da cosa scaturisce il desiderio di controllo della vittima nella mente dell’omicida?

R: Gli elementi del desiderio di controllo e l’incapacità di accettare la fine di una relazione hanno principalmente tre cause che possono coesistere interagendo sistemicamente tra di loro. La prima è un pensiero retrivo, di derivazione patriarcale che fa percepire la donna come fosse un oggetto di proprietà da parte dell’uomo con cui è in relazione. Non a caso tale convinzione risulta essere la prima causa dell’azione violenta dell’uomo nei confronti della donna secondo i dati Istat.

Il controllo della partner diventa simile a quello di un’autovettura, di un immobile, di un bene proprio. Ma se la donna osa autodeterminarsi, uscire dallo stato di “cosa” e interrompere la relazione, ecco che la violenza, a partire da quella psicologica, arrivando a quella fisica, sino all’atto apicale e tragico del femminicidio, ha lo scopo di rimetterla letteralmente al suo posto di oggetto, che in quanto tale può essere preso, danneggiato e alla fine distrutto.

La seconda causa risiede nella personalità narcisistica dell’abusante, che si è sviluppata a seguito di un legame di attaccamento con la figura di accudimento primaria, in genere la madre. Il bambino che in tenera età non viene riconosciuto nella propria essenza dalla mamma, in quanto costretto attraverso la manipolazione ed il controllo, a diventare l’immagine ideale di figlio che ha in mente lei, una volta cresciuto replicherà questo schema nelle relazioni significative della propria vita.

Il sottrarsi della partner a questo controllo, o peggio alla relazione, suscita nell’individuo una rabbia furibonda che – in caso di una compromissione grave della personalità, che può essere connotata da tratti antisociali e paranoia – potrebbe far scattare l’azione criminosa fino all’esito infausto del femminicidio.

Nella terza causa identifichiamo la minaccia all’immagine pubblica, che è il totem delle moderne società narcisistiche in cui viviamo e che può per alcuni essere percepita come compromessa dall’interruzione della relazione. Essere lasciati dunque, per chi è schiavo del consenso altrui, può essere vissuto come uno stigma di inadeguatezza. Una macchia intollerabile da scongiurare ad ogni costo, ed in caso, da lavare via con il sangue.

L’emulazione del femminicidio, la minaccia nei casi di cronaca: “Ti faccio fare la fine di Giulia Cecchettin”

Dopo l’omicidio commesso da Filippo Turetta, in Italia ci sono stati diversi casi di cronaca in cui gli aggressori di turno minacciavano le vittime affermando: “Ti faccio fare la fine di Giulia Cecchettin”.

A questi si aggiunge la notizia del 5 dicembre 2023, secondo cui a Padova, durante una partita di basket il papà di uno dei ragazzi che giocavano in campo si sarebbe rivolto alla giovane arbitro 17enne, urlando: “Devi fare la fine di quella di Vigonovo”.

D: Da dove nasce questo senso di emulazione? Perché continuano a verificarsi episodi del genere?

R: Riguardo l’episodio di Padova, la dichiarazione è gravissima ma fortunatamente tra le due persone protagoniste del fatto non intercorre un rapporto diretto. Resta un’affermazione che va attenzionata, perché la violenza comincia sempre dalle parole, è anticipata da queste solitamente.

Ciò è confermato dagli altri casi di cronaca, in cui gli individui responsabili della minaccia già abusavano delle donne alle quali l’hanno rivolta. Volevano terrorizzarle e dare seguito a quanto detto, motivo per cui sono stati segnalati alle autorità.

Per quanto riguarda l’effetto emulazione, va sottolineato che è proprio la spettacolarizzazione di crimini efferati a favorirlo. Chi vive un disagio con la società, percependosi al di sopra delle sue regole, può trovare nell’amplificazione mediatica di certe condotte, una sorta di affermazione delle stesse e di chi le mette in atto, anche se in negativo.

Femminicidio e violenza fisica: perché il killer si accanisce contro il corpo della vittima?

Parlando femminicidio e di violenza fisica contro le donne, di frequente si legge di casi in cui il killer/aggressore si accanisce brutalmente contro il corpo della vittima. Basti pensare alle venti coltellate e oltre che hanno colpito il corpo di Giulia o ai numerosi episodi dove gli uomini hanno sfregiato le donne servendosi dell’acido.

D: Cosa rappresenta questo modo di agire contro il corpo della vittima da parte di chi si macchia della violenza? Perché ci si accanisce con tale ferocia quando basterebbe anche un solo colpo per uccidere, qual è il senso che si nasconde dietro?

R: L’accoltellamento plurimo rimanda ad una rabbia feroce che sottende ad una relazione con l’altro che è declinata in odio. Una volta che si attiva la dinamica dell’omicidio, essa evolve in una escaletion furibonda per cui l’assassino infierisce sul corpo con tanti colpi. Mentre il dar fuoco e il gettare l’acido esprimono la volontà di distruzione della vittima e di cancellazione dell’identità.

L’incremento di tali modalità nella soppressione della vittima è il sintomo di un crudeltà disumanizzante presente nella nostra società, su cui dovremmo tutti interrogarci. Bisogna prevenirla e contrastarla.

Il femminicidio e il concetto di patriarcato: cosa significa questo termine?

D: Il termine patriarcato ultimamente sembra essere sulla bocca di tutti. Cosa significa davvero questa parola? E’ stata usata troppo o in modo improprio di recente?

R: La parola nella sua accezione antropologica descrive un tipo di sistema sociale dominato dal diritto paterno, che conferisce il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica ai maschi più anziani del gruppo. In Italia tale sistema ha cominciato a vacillare nel dopoguerra ed in particolare da quando le donne hanno conquistato il diritto di voto. E’ quasi tramontato dopo le grandi contestazioni del ’68.

Tuttavia certe scorie di pensiero patriarcale hanno continuato a influenzare una fetta significativa del paese, addirittura quasi il 50% del campione di popolazione adulta considerata dall’Istat nei dati provvisori usciti nel 2023 sugli stereotipi di genere.

Questa mentalità retriva, misogina che considera la donna la donna relegata ai due stereotipi di moglie e madre soggetta all’uomo per il mantenimento proprio e della prole, e di oggetto del desiderio che trova la propria ragione di essere nella validazione maschile, è stato purtroppo trasmesso alle giovani generazioni. Una realtà dimostrata da varie ricerche, come quella di Ipsos per Save the Children del 2020. Questo fatto spiega perché si sia abbassata l’età delle vittime e degli autori di violenza di genere.

Alle figure di moglie – madre e di oggetto del desiderio non viene riconosciuto il diritto di autodeterminazione, per tanto chi percepisce il femminile entro questi ruoli, può ritenere in caso di conflitto e decisione della donna di allontanarsi dalla relazione, di intervenire con violenza per ricollocarla al suo posto di subordinata, fino a spingersi – in caso di resistenza – all’atto tragico del femminicidio.

Più che di errato uso o abuso del termine “patriarcato”, va sottolineato che scorie di vecchio pensiero patriarcale sono ancora molto presenti nella società e vanno a confluire in una mentalità misogina che espone la donna alla violenza di genere.