Impossibile, in casa Pd, nascondere la paura per nuovi addii. Dall’avvento della segreteria Schlein, infatti, ben cinque tra deputati e senatori hanno scelto di allontanarsi dal Partito democratico. Dopo Beppe Fioroni, primo ad abbandonare la nave dem, anche Enrico Borghi, Andrea Marcucci e Caterina Chinnici hanno deciso di lasciare il partito. Solo due giorni fa, infine, anche il senatore Cottarelli ha annunciato le sue dimissioni da senatore. Ad accomunare queste scelte – cinque in poco più di due mesi, tre nelle ultime settimane – il disagio per la linea dem dopo l’elezione della segretaria Schlein. La nuova segretaria è accusata, infatti, di aver portato il Pd eccessivamente a sinistra, rendendo inconfortevole la permanenza per gli esponenti centristi.

Addii al Pd, Arturo Scotto: “La sinistra deve fare la sinistra”

La redazione di TAG24 ha raggiunto l’onorevole Arturo Scotto (Pd) per conoscere la sua posizione in merito agli addii al Pd dopo l’elezione della segretaria Schlein.

Onorevole Scotto, lei sul suo profilo Facebook ha scritto che “non è il Pd che si sposta a sinistra: è che nel corso degli ultimi anni qualcuno ha immaginato che la funzione della sinistra fosse un’altra.” Può spiegarci cosa intende?

“È molto semplice. Non esiste nel mondo nessuna sinistra, dalla più moderata alla più radicale, che non metta al centro il tema della rappresentanza del lavoro. O che non riconosca che nella società ci sono interessi compositi che devono essere rappresentati con ricette diverse.

È chiaro che le lenti con cui si guarda ai processi economici e sociali sono sempre parziali e che ci siano punti di vista differenti. Tuttavia in Italia, negli ultimi anni, si è affermata l’idea che gli interessi siano tutti uguali. Non è così: per questo l’idea del partito pigliatutto ha fatto sì che alla fine non si rappresentasse più nessuno. Io credo, invece, che con la Schlein si segni un punto: il Pd vuole rappresentare gli interessi dei lavoratori. Non c’è nessun massimalismo di ritorno, ma una sinistra che fa il suo lavoro”.

Perché c’è, secondo Lei, la tendenza a descrivere invece questo nuovo Pd come massimalista? Chi usa questo termine intende screditare?

“È indubbio. Si descrivono in un modo un po’ “folcloristico” posizioni politiche assolutamente ragionevoli. Cosa c’è di più ragionevole di dire che un Paese dove ci sono 900 contratti di lavoro registrati c’è bisogno di una legge sulla rappresentanza che cancelli i contratti pirata? E ancora: cosa c’è di sbagliato nel dire che la rendita non può essere tassata la metà del lavoro? Cosa c’è di più sensato nel dire che la precarietà deve essere combattuta ripristinando la primazia del contratto a tempo indeterminato rispetto a quello a termine? Cosa c’è di più ragionevole nel dire che, tagliando il reddito di cittadinanza il Governo sta facendo la guerra ai poveri?

Questi ragionamenti non mi sembrano radicali ma sono propri di una forza moderna di sinistra che affronta le questioni del nostro tempo. Prendiamo ad esempio la questione climatica, che è qualcosa in più di un punto del programma elettorale ma è una lente attraverso cui guardare il mondo e il futuro delle prossime generazioni”.

Secondo Lei, questa sequenza di addii al Pd rivela un segnale di disagio interno o è l’opportunità per un chiarimento della posizione del partito?

“Non entro in queste scelte che sono individuali e che rispetto. Da me non arriverà mai nessun tipo di anatema o di attacco. Faccio solo una considerazione, rovesciando la domanda. Che cos’è oggi la sinistra per loro? Che cosa deve fare la sinistra di fronte all’allargamento delle diseguaglianze sociali che non riguardano solo il reddito? Dovremmo limitarci ad osservare e aggiustare o invece dovremmo provare a cambiare il modello economico?

Si parla molto di riformismo, termine oramai abusato e manomesso. Questo termine ha perso significato rispetto al suo significato originale e per molti oggi significa riduzione dei diritti e degli spazi democratici. Il riformismo nasce invece all’interno del movimento operaio per distinguere le posizioni di chi immaginava il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori tramite l’azione parlamentare e sindacale da quelle di chi immaginava la presa rivoluzionaria del palazzo. Il riformismo aveva l’obiettivo di allargare i diritti a chi non li aveva: è questo il significato che dobbiamo restituire alla parola.

In questo senso il nuovo corso di Elly Schlein segna il ritorno a un’idea riformista e riformatrice della società, la ripresa di un’idea di allargamento dei diritti. Dopo anni in cui sinistra e destra hanno svolto la loro contesa attorno a una scatola chiusa, definita da vincoli esterni, austerità e capitalismo finanziario, c’è finalmente un’idea di cambiamento”.

La strada imboccata dal Pd è dunque secondo lei quella giusta?

“Un partito politico ovviamente dà risposte alle persone che decide di rappresentare. È chiaro che occorre ripartire dalla rappresentanza di tutti coloro che negli ultimi anni hanno perso tutele, reddito, potere e soprattutto la speranza che la politica migliori la loro vita. Proprio per questo mi meraviglio di chi si meraviglia del nuovo corso intrapreso“.

Gli errori della sinistra hanno fatto sì che gli elettori cercassero risposte altrove?

Non c’è dubbio: la sinistra di questo Paese ha regalato ad altri la bandiera della protezione sociale di chi era stato espulso dai processi produttivi e di distribuzione del reddito. La questione sociale è stata affidata a chi da un lato diceva che in pochi mesi avrebbe abolito la povertà, dall’altro a chi ha scatenato la guerra dei penultimi contro gli ultimi. La sinistra ha perso la sua funzione ed è apparsa come quella che rappresentava i ceti vincenti dei processi di globalizzazione.

Occorre ora ricostruire, in chiave nuova, una rappresentanza di interessi dinamici. Oggi solo il mondo del lavoro può salvare questo Paese dal declino demografico, geopolitico, ambientale ed economico. Questo può avvenire solo se gli interessi dei lavoratori saranno riportati al centro del dibattito politico”.