La Corte europea dei diritti umani condanna, Cedu, l’Italia per trattamento inumano dei migranti. Quattro tunisini hanno infatti ricorso dopo essere stati salvati da una nave italiana ed essere trasportati all’Hotspot di Lampedusa. Qui però sono rimasti per 10 giorni, senza poter uscire o poter contattare le autorità italiane.

La Cedu ha così rilevato che l’Esecutivo italiano “ha fallito nel respingere le prove che le condizioni nell’hotspot di Lampedusa erano inadeguate; che la presenza (dei quattro, ndr) era considerata una detenzione, ma senza che questa fosse originata da un ordine ufficiale né che fosse un periodo limitato per chiarire la loro posizione o inviarli altrove, come richiesto dalla legge”. Secondo la Corte, la condizione dei migranti “non fu oggetto di una valutazione individuale prima che fossero emessi i provvedimenti di respingimento, che vanno considerati come una espulsione collettiva”.

Le loro condizioni – spiega la Cedu – erano inumane e degradanti“. Alla fine del mese, ricostruisce la sentenza, i 4 tunisini, insieme ad altre 40 persone, furono trasferiti nell’aeroporto dell’isola. Qui vennero dati loro dei documenti da firmare, senza che però i migranti capissero cosa stessero siglando. Solo dopo hanno capito che quei documenti erano “provvedimenti di espulsione emessi dalla questura di Agrigento”. Tutti i migranti furono infatti trasferiti da Lampedusa a Palermo e, infine, espatriati in Tunisia.

La Cedu condanna l’Italia: la sentenza

“Trattamento inumano” dei migranti, privazione della libertà di questi e respingimenti illegali. Sono queste le motivazioni alla base della sentenza con cui la Corte ha condannato l’Italia. Principalmente per aver infranto gli articoli 3, 4 e 5 (commi 1, 2 e 4).

L’Italia, rileva la Corte, ha violato l’articolo 3 della Convenzione dei diritti umani, che proibisce i “trattamenti inumani e degradanti”, come la “mancanza di spazio e di igiene” nell’hotspot. “Le difficoltà causate dal flusso di migranti e richiedenti asilo – sottolinea la Corte – non assolvono gli Stati membri dai loro obblighi“. L’articolo 5 sul Diritto alla libertà: i tunisini hanno trascorso dieci giorni nell’hotspot, circondati da sbarre, recinzioni e cancelli, e da qui non potevano uscire. La legge consente un periodo limitato di trattenimento solo affinché i migranti possano chiarire la loro posizione e in vista di un ulteriore trasferimento. I giudici hanno rilevato che “non vi era alcuna base giuridica chiara” che giustificasse la detenzione di dieci giorni dei migranti, mai informati delle ragioni legali della loro privazione della libertà.

Quanto al respingimento, la Cedu sottolinea che la condizione dei migranti andava valutata individualmente. Invece, non c’erano stati colloqui individuali, le ordinanze non contenevano informazioni sulla persona che ne era oggetto e a due dei quattro tunisini non era stata data una copia dell’ordine di respingimento. “Ai migranti era stato dato poco tempo dopo la firma – spiega la Corte – e, poiché non in grado di comprendere il contenuto degli ordini, era chiaro che non fossero stati messi in grado di ricorrere  contro le decisioni delle autorità“.

L’Italia, dopo la condanna della Cedu, dovrà risarcire i quattro tunisini con la somma di 8.500 euro ciascuno per danno non patrimoniale, e pagare 4.000 euro di spese legali. Per un episodio avvenuto nel 2017, quando al governo c’era il premier Gentiloni.

La storia dei 4 tunisini

I quattro tunisini erano partiti nell’ottobre del 2017 dalla Tunisia e, in difficoltà in mare, erano stati recuperati da una nave italiana che li aveva trasferiti a Lampedusa per la registrazione, l’identificazione e un colloquio con le autorità. Vi restarono, però, dieci giorni, durante i quali non furono in grado di uscire né di interagire con le autorità.