Aveva 11 anni Luca Di Bartolomei figlio di Agostino l’ex capitano della Roma, quando questi a San Marco di Castellabate si uccise con un colpo di pistola, il 30 Maggio del 1994 dieci anni dopo la finale di Coppa dei Campioni perduta ai rigori contro il Liverpool.

Luca lo ha sempre chiamato Agostino e non papà. Perché per la morte di Di Bartolomei, storico capitano della Roma campione d’Italia nel 1983 ha sempre vissuto un profondo senso di colpa. 

“Perché non sapevo come reagire a ciò che avvertivo come un rifiuto da parte di Agostino. Lui si è ucciso nonostante avesse me, oltre mia madre e mio fratello, e dunque pensai che dovessi avere anch’io una parte di responsabilità”, ha raccontato in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera”.

Solo di recente Luca ha avuto la forza di andare a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, sulla tomba del padre. 

“Questo gesto è riuscito a svegliarmi, a liberarmi da un senso di colpa che non doveva appartenermi ma mi ha accompagnato per quasi ventinove anni”, spiega Luca.

“Credo che Agostino sia la rappresentazione del potenziale fallimento che interroga tutti, e di fronte al quale rimaniamo senza parole o senza fiato. Per questo quel suo gesto lo ha trasformato in un piccolo fenomeno collettivo”.

Lo ha sempre chiamato Agostino, e non papà anche dopo anni: “Perché fino ad ora l’incapacità di capire come vivere questa vicenda ha provocato una rabbia che ha eretto una specie di muro tra me e lui. Quasi invalicabile. Invece da simili esperienze bisognerebbe imparare ad avere la forza di accettare le proprie fragilità e non provare sempre a superarle spingendosi oltre; riempire ogni cosa di significati va bene, ma va bene anche non avere l’ansia di riempirle ad ogni costo perché altrimenti manca qualcosa”.

Luca Di Bartolomei e il racconto del 30 Maggio 1994

Luca ha inoltre ricordato quel 30 Maggio 1994 ripercorrendo la giornata che ha portato alla morte del padre:

“Il 30 Maggio è papà che scende dalla stanza dove dormiva con mamma e infila qualche moneta nella tasca dei miei pantaloni appesi alla ringhiera della scala. Io lo vedo perché ero già sveglio, e quando entra in camera per salutarmi mi chiede se voglio andare con lui a Salerno. Io rispondo di no perché avevo una prova di latino a cui non volevo rinunciare. Poi mi vesto, preparo lo zaino, papà s’era seduto in terrazza al sole che batteva già alto, gli do un bacio. Vado a scuola. Dopo circa un’ora, con molto tatto, mi hanno avvisato di quello che era accaduto e sono tornato casa. Ago era già nella bara di zinco”.

A chi gli domanda se rievocare la sconfitta nella finale di Coppa dei campioni significasse ammettere un fallimento personale, Di Bartolomei replica:

“Direi di sì. Non ho certezze né prove, ma dovendomi basare su indizi penso che si debba accettare questo messaggio, farci pace e andare avanti. Smetterla di chiamarlo Agostino e farlo tornare papà. In fondo la mia rabbia verso di lui è derivata proprio dal suo considerarsi più Ago che papà; più il campione che aveva fallito l’appuntamento più importante della sua carriera del padre che poteva essere. Però sto capendo che le persone vanno amate come sono, non per come vorremmo che fossero”.

La battaglia contro il possesso delle armi da fuoco

Nella lunga intervista Luca si sofferma anche sul porto d’armi, su cui ha le idee chiare tanto da trasformarla in una battaglia che porta avanti da anni: “Il possesso di un’arma aiuta a allontanare le insicurezze e le fragilità, che invece sono come le cuciture degli aerei: li rendono più forti perché più elastici. Le armi sono una risposta rigida: sì o no, sparo o non sparo, uccido o lascio vivere. Meglio le risposte flessibili. E meglio vivere, in ogni caso”.