Chi sono i colletti bianchi e perché, in sociologia e criminologia, si parla di specifici reati ad essi connessi? Si tratta di un’espressione che deriva dall’inglese white collars, con cui vengono indicati i ceti sociali formati da impiegati, funzionari dello Stato e altre categorie simili di lavoratori, per distinguerli dai blue collars (i colletti blu) e, ad essi, sono stati associati dei reati particolari. Vediamo di cosa si tratta nello specifico.

Chi sono i colletti bianchi e perché si parla di specifici reati ad essi connessi?

Si chiamano “colletti bianchi” perché, in virtù della professione che svolgono, durante l’attività lavorativa possono indossare camicie chiare, a differenza di quanto accade per i “colletti blu” come operai e contadini che, svolgendo un lavoro più manuale, indossano solitamente apposite tute o abiti. L’espressione, attribuita allo scrittore Upton Sinclair, viene quindi utilizzata per riferirsi a professionisti salariati come medici, magistrati, insegnanti, impiegati, dirigenti e funzionari pubblici che, al di là del loro abbigliamento, godono di determinati privilegi e di salari alti, rientrando di diritto nel ceto medio-alto della società, cioè la sua classe dirigente. Ma, sempre più spesso, questa espressione viene utilizzata in ambito sociologico e criminologico per indicare anche una particolare tipologia di reati.

La paternità della teoria dei crimini dei colletti bianchi si deve a Edwin Sutherland, uno dei criminologi e sociologi più influenti del XX secolo. Nel suo libro White Collars Crimes, pubblicato nel 1949, Sutherland fu infatti il primo a parlare di reati “commessi da persone rispettabili e di alto stato sociale, nel corso delle proprie occupazioni”, mettendo in luce che una buona parte dei reati del tempo – molti dei quali di carattere economico – erano di fatto legati a persone perfettamente integrate nella società e spesso appartenenti ai suoi ranghi più alti. Tra i crimini ad essi associati, il sociologo e criminologo faceva rientrare, in particolare: la corruzione di pubblici ufficiali, la manipolazione del mercato azionario, il falso di bilancio, le false comunicazioni sociali, l’appropriazione indebita di fondi e la distrazione di fondi in amministrazione controllata e fallimentare.

Si tratta, quindi, di reati perseguiti perlopiù per fini di lucro, realizzati da chi riveste un ruolo specifico, distinguendosi per l’elemento soggettivo, che è il dolo, e per il fatto che spesso sono commessi senza violenza. Vi rientrano quelli dei lavoratori appartenenti al mondo della politica, della finanza, del commercio, dell’impresa, come i delitti societari, i delitti di corruzione, la truffa, i delitti di frode nelle erogazioni pubbliche e il riciclaggio, solo per citarne alcuni. Tra le vittime ci sono, invece, i lavoratori, intesi come dipendenti di un’azienda, i consumatori, gli investitori, ma anche gli enti che erogano i finanziamenti e quindi lo Stato, gli enti pubblici e la comunità europea. Volendo rintracciare un punto comune a tutti i reati, si potrebbe parlare di violazione della fiducia: il professionista che delinque nello svolgimento della propria attività, approfitta infatti del “credito” che gli viene dalla sua posizione.

Se da una parte c’è, quindi, il danno economico specifico che scaturisce dall’azione criminosa, dall’altro c’è un danno sociale, estremamente grave e profondo. I reati dei colletti bianchi minano infatti il rapporto di fiducia su cui si regge la convivenza civile e, spesso, restano anche impuniti: proprio in virtù della loro situazione di privilegio, queste persone possono adoperare con maggiore facilità affinché determinati crimini vengano “dimenticati” o per alleggerire la conseguente pena, modificando di fatto l’assunto costituzionale secondo cui “la legge è uguale per tutti”, creando una sorta di zona grigia, dove il confine tra lecito e illecito è ambiguo e cambia in base agli interessi di volta in volta in gioco, che spesso includono anche le mafie.