Si chiama Oncotype DX ed è uno dei nuovi test sviluppati per combattere il cancro al seno. Il suo utilizzo è incluso in tutte le più importanti linee guida internazionali e, nello specifico, si tratta di un test che esamina l’espressione di 21 geni selezionati su un campione di tessuto tumorale e permette di stabilire la probabilità di recidiva della malattia e la risposta alla chemioterapia. Lo dimostrano studi che risalgono a più di dieci anni fa ma nuove conferme sono arrivate di recente dal San Antonio Breast Cancer Symposium, il più importante meeting mondiale sul carcinoma mammario.

Nuovi test contro il cancro al seno grazie alla genomica. Cosa sono e come funzionano

Il test Oncotype DX esamina l’espressione di 21 geni selezionati su un campione di tessuto neoplastico. “Tramite la valutazione – spiega Giuseppe Curigliano, professore di Oncologia Medica all’Università di Milano e Direttore Divisione Sviluppo di Nuovi Farmaci per Terapie Innovative all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano – possiamo stabilire quale sia la probabilità di recidiva della malattia e la risposta alla chemioterapia. Quest’ultima è un trattamento ancora molto temuto dalla maggioranza delle pazienti e si sta rafforzando il ruolo dei test genomici nel limitarne il ricorso. Somministrare la sola terapia endocrina, dopo un primo intervento chirurgico, presenta degli indubbi vantaggi clinici”. Spetta al team multidisciplinare che ha in cura la donna prescrivere questo tipo di test, valutando il ricorso ad un esame genomico che non può essere sempre prescritto. In Italia sono oltre 10mila donne potrebbero beneficiare dei vantaggi offerti e rappresentano circa un quinto di tutti i nuovi casi di carcinoma mammario. Il test genomico Oncotype permette sempre più di personalizzare le cure per il tumore del seno in fase iniziale. E’ in grado di identificare oltre 80 percento delle donne che non può ricevere un beneficio sostanziale dalla chemioterapia. Permette, inoltre, di individuare la minoranza di pazienti a cui la chemioterapia può invece salvare la vita. Al San Antonio Breast Cancer Symposium sono stati presentati i risultati aggiornati di Tailorx, il più ampio studio sul carcinoma mammario mai realizzato. La nuova valutazione a 12 anni conferma i risultati emersi della prima analisi. Come nell’analisi originale, il sottogruppo di donne di età pari o inferiore a 50 anni (con risultati di Recurrence Score tra 16 e 25) ottiene dalla chemioterapia un beneficio che dura fino a 12 anni. Per quelle con risultati di Recurrence Score tra 0 e 25 gli eventi di recidiva tardiva, oltre i cinque anni, hanno superato le recidive precoci. Tuttavia, il rischio di recidiva a distanza a 12 anni resta sotto il 10 percento, una percentuale che indica un rischio basso. “Questo follow-up allungato a 12 anni conferma gli ottimi risultati già riscontrati nel primo studio – continua Curigliano. Attualmente Oncotype DX è riconosciuto come standard di cura ed il suo utilizzo è incluso in tutte le più importanti linee guida internazionali sul tumore del seno”. Le donne che hanno utilizzato il test genomico erano colpite da tumore del seno con linfonodi positivi e sensibili al sistema endocrino. Un’ulteriore indagine, inoltre, ha dimostrato come il deterioramento cognitivo, collegato al cancro, è stato maggiore con la chemioterapia rispetto alla sola terapia endocrina. Oltre ai noti effetti collaterali della chemioterapia, tra i quali alcuni particolarmente spiacevoli come l’alopecia sia pure temporanea e la menopausa con conseguente infertilità nelle donne più giovani, ora se ne aggiunge appunto un altro: il deterioramento cognitivo.

I ritardi dell’Italia

Il nostro Paese è arrivato in ritardo all’utilizzo dei test genomici per il tumore del seno. “Dopo un lungo iter politico-burocratico-amministrativo sono da diversi mesi disponibili gratuitamente per tutte le pazienti nell’intera la Penisola”, spiega Curigliano. “Tuttavia, registriamo ancora uno scarso uso da parte del personale medico-sanitario. Al momento stiamo utilizzando solo il 50 percento dei test rimborsati e quindi disponibili per clinici e pazienti. Le continue evidenze scientifiche prodotte stanno dimostrando in modo inequivocabile le grandi potenzialità che possiedono”, conclude. I motivi del ritardo sarebbero da attribuire da un lato alla scarsa consapevolezza da parte degli stessi clinici, dall’ dall’altra anche una certa pigrizia e scetticismo per l’innovazione.