Riporta alla mente altre tragedie, il disastro della Val di Stava. Come il crollo della diga del Vajont del 1963, raccontato sul Corriere dall’inimitabile penna di Buzzati, o quello, più recente, della Marmolada. Perché le stragi si assomigliano tutte; è lungo e doloroso il catalogo delle similitudini. Oggi, a 37 anni dall’inondazione in Trentino, è ancora forte il dolore per le 268 vittime del tragico evento.

Disastro della Val di Stava: i fatti

Per spiegare la catastrofe bisogna tornare indietro nel tempo: nel 1961 viene costruito al di sopra dell’abitato di Stava, in località Pozzole, il primo bacino di decantazione per il materiale di scarto dell’adiacente miniera di Prestavel. Contrariamente a quanto previsto dai progetti iniziali, che lo limitano a 9 metri, l’argine del bacino raggiunge ben presto i 25 metri; ad esso se ne aggiunge addirittura un altro, costruito nel 1969 a monte del primo, fino a raggiungere 50 metri complessivi. È qui l’origine del disastro: il 19 luglio del 1985, alle 12.22, gli argini dei bacini cedono, provocando la colata a valle di una massa fangosa composta da sabbia, limo e acque, che scendendo spazza via alberi, abitazioni, persone, radendo al suolo il villaggio di Stava. I soccorsi sono immediati ed efficienti (si stima che a partecipare all’intervento furono 18mila persone), ma non riescono a fermare la strage: pochissime sono infatti le persone estratte vive o ferite dalle macerie e il bilancio, alla fine, è di 268 vittime. I corpi di 13 di loro non saranno mai ritrovati.

Dopo i fatti: cause e responsabilità della strage

Dopo la catastrofe, come al solito, le responsabilità si rimbalzano. Ciò che è certo è che, in oltre 20 anni, le discariche non furono mai sottoposte a serie verifiche di stabilità da parte degli organi competenti. La Commissione ministeriale d’inchiesta e i periti nominati dal Tribunale di Trento accertarono, infatti, che

tutto l’impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla vallata. L’impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere comunità umane. L’argine superiore in particolare non poteva che crollare alla minima modifica delle sue precarie condizioni di equilibrio.

La causa del crollo venne dunque individuata nella cronica instabilità delle discariche, in particolare del bacino superiore, che non possedevano coefficienti di sicurezza minimi necessari a evitare il franamento. Il procedimento penale che seguì la strage si concluse nel 1992 con la condanna in quarto grado di 10 imputati per reati di disastro colposo ed omicidio colposo plurimo. Al di là delle azioni e omissioni penalmente rilevanti, concorsero al disastro di Stava una serie di comportamenti che vanno oltre la sfera giuridica e si caratterizzarono principalmente nell’aver anteposto alla sicurezza dei terzi la redditività economica degli impianti.

37 anni dopo: le celebrazioni in ricordo delle vittime

L’unica ad essersi salvata dalla tragedia è la piccola chiesa della Palanca, poco più a valle del centro documentazione di Stava, che testimonia com’era la vallata prima del tragico evento. Oggi, 37 anni dopo la strage, nel giorno del suo anniversario, alle 18.30 sarà celebrata nel cimitero della chiesa di San Leonardo, a Tesero, la Santa Messa di suffragio delle vittime e sarà poi deposta una corona di fiori davanti alla chiesetta di Stava. È stato inoltre rinnovato, dopo i danni della tempesta Vaia del 2018, il sentiero “Stava 1985“, che ripercorre i luoghi della strage. Si cerca così di mantenere attiva la memoria su un drammatico episodio che ci ricorda, come ci ricordano molte stragi, che la superficialità di pochi può diventare il dramma di molti. Bisognerebbe sempre tenerlo a mente.