Appuntamento a Roma domani alle ore 14 per una sfida dall’esito scontato ma dal fascino intramontabile. Sul prato dell’Olimpico infatti l’Italia del rugby affronterà gli All Blacks, la nazionale neozelandese, tre volte campioni del mondo, unica squadra a poter vantare un record positivo contro tutte le altre avversarie, ambasciatrice nel mondo di uno sport che per loro è anche cultura, identità, tradizione.

Il rugby, in Nuova Zelanda più di uno sport

Giocano vestiti di nero, listati a lutto per i loro avversari. Vengono dall’altra parte del mondo, dal “paese della grande nuvola bianca”, così chiamato in lingua Maori. E di sangue Maori – istintivo, coraggioso e aggressivo – si alimenta il loro rugby. Prima del calcio d’inizio son soliti onorare gli avversari di giornata con una danza – la Haka – che può essere tributo, omaggio, saluto. Ma anche dichiarazione di guerra, sfida lanciata a viso aperto che troverà nei successivi ottanta minuti un esito che con loro è quasi sempre scontato.

Come riescano, con una popolazione di poco più di 5 milioni di abitanti (meno di Roma), ad attestarsi al vertice di questo sport da quasi un secolo superando ricambi generazionali, cambi di regolamento, calendari intensi, infortuni e quant’altro resta un mistero. C’è chi dice che siano pochi e per questo riescano ad organizzarsi meglio; ma innovare senza annacquare radici e tradizione, restando fedeli a sé stessi e ai requisiti richiesti per poter ambire un giorno a indossare quella maglia è operazione il cui successo dipende solo se quel che fai coincide con quel che sei.

Loro la chiamano “legacy”, che in italiano suona come “lascito”, “eredità”. Dicono che quella maglia nera è in prestito e che il loro dovere è consegnarla a chi verrà dopo in condizioni migliori di quelle in cui l’hanno ricevuta. Quelle condizioni son quasi l’eccellenza. Da qui la competitività, la selezione, gli standard cui si guarda per poter essere presi in considerazione. Che non riguardano solo muscoli e velocità (scontati, se si vuol competere a certi livelli), e che non possono prescindere dall’umiltà, dal sapersi mettere al servizio dell’altro, dall’educazione e dall’immagine che si da di sé. Poi in campo ci si trasforma. E come recita un’altra massima che si tramanda da quelle parti, “una brava persona ha più possibilità di diventare un bravo giocatore” e di ispirare chi verrà dopo di lui.

Noi e loro

Quindici volte li abbiamo sfidati e quindici volte ci hanno battuti. A volte surclassandoci, altre volte sudando un po’ più del previsto. Domani toccherà a questa nuova Italia targata Kieran Crowley – neozelandese pure lui, campione del Mondo in magli a nera nel 1987 – provare a conquistare il rispetto dei tuttineri. Inutile farsi illusioni per il risultato, ma è solo affrontando i migliori che si può sperare di crescere. Verranno quindi a chiederci del nostro rugby, gli All Blacks. Abbiamo ottanta minuti per provare a rispondere: affrontarli anziché fermarsi ad ammirarli. Al fischio finale, se così sarà stato, nelle loro strette di mano troveremo il rispetto che cercavamo e l’ottimismo con cui guardare al futuro.