Anni ’80. Jacob, immigrato in America dal sud Corea insieme a moglie e figli, è stanco di sopravvivere grazie al suo estenuante lavoro in fabbrica. Non ne può più, ha deciso: si trasferiranno tutti in Arkansas nella nuova fattoria di famiglia, una triste e traballante casa su ruote che da non pochi problemi durante i frequenti uragani. Vuole a tutti i costi inseguire il sogno, avviare una coltivazione di prodotti tipici coreani e crearsi un mercato tra i tanti che ogni anno emigrano e hanno nostalgia dei sapori di casa. Ma il suo progetto richiederà enormi sacrifici e le cose non andranno subito come previsto, con i debiti per pagare l’acqua e le spese del campo in crescita e i prodotti invenduti.

Il minari è una pianta alla base della dieta coreana, secondo la tradizione un rimedio potente, adatto ad ogni malanno. Curativa, fortificante, protegge ed è in grado di crescere rigogliosa un po’ ovunque, in Corea tutti ne fanno uso, ricchi e poveri. Quest’erba – che da il titolo al film – intenta a mettere radici su terre imperve, è la perfetta metafora alla base del nuovo dramma di Lee Isaac Chung, regista sud-coreano molto noto in patria ed ora anche oltre oceano grazie alle 6 nominations ricevute agli ultimi Academy Awards. Nato a Denver da genitori immigrati, cresciuto in una fattoria proprio in Arkansas, con questa storia dai tratti fortemente autobiografici ha stregato perfino Brad Pitt (che lavora dietro le quinte nel ruolo di produttore).

La smania di ricercare da subito l’integrazione per sentirsi americani e il bisogno nascosto di conservare nel ricordo un pezzetto del proprio mondo, è il travaglio che vivono i personaggi della storia. E a complicare il tutto ci si mette anche l’arrivo della suocera che avrebbe in teoria il delicato compito di risaldare il nucleo familiare. Soonja è una nonna borderline che non cucina, non fa i biscotti, ne tantomeno racconta storie. Piuttosto preferisce giocare a carte e gridare parolacce mentre guarda tv spazzatura. Furba, forte, insolente, non certo di facile gestione irrompe in particolare nella vita del piccolo e cagionevole David (che ha un soffio al cuore che desta grande preoccupazione alla mamma) soggiornando in pianta stabile nella sua già piccola cameretta. È suo, alla fine, l’unico Oscar conquistato da Minari, Yoon Yeo-jeong, la prima attrice coreana a vincere un premio per la recitazione.

Per ciò che riguarda l’aspetto dell’inclusione, il tema caldo del razzismo è per lo più abbozzato, anzi smorzato. Il vicino un po’ fuori di testa che trascorre le domeniche trascinando tra i campi una croce gigante, forse per espiare i peccati della guerra di Corea, e il bambino cowboy amico di David che esordisce chiedendogli perché abbia “la faccia tanto piatta” si rivelano in fondo, nella loro stramba caratterizzazione, innocentemente simpatici. 

A proposito di discriminazioni vale, invece, la pena menzionare una questione molto dibattuta che ruota attorno a questo e ad altri film. Ebbene importati premi come i Golden Globe da sempre mettono al vaglio la candidatura di alcuni titoli nella categoria miglior film, basandosi su regole vetuste che determinano l’idoneità di una pellicola in base alla ricorrenza della lingua inglese nei suoi dialoghi. Minari, film che più americano non si può, utilizzando per lo più il coreano è solo l’ennesima vittima di questo meccanismo che pare però prossimo allo scardinamento squassato dal trionfante approdo del film agli Oscar, nella cinquina dei “best pictures” come avvenne anche l’anno prima con Parasite. 

Minari, certo, a confronto con il suo predecessore coreano ci racconta una storia ben più semplice. Una storia che ha il pregio, però, di portarci alla riscoperta dei valori dell’America rurale, messi sotto una luce nuova, arricchiti dal grande multiculturalismo tipico USA, sofferto quanto orgogliosamente difeso. Un racconto di resilienza e riscatto appassionate perché autentico e genuino.