Riccardo Scamarcio è produttore, co-sceneggiatore e protagonista di una storia di lotte contadine e amori proibiti, ambientata nella Puglia degli anni Cinquanta. L’ultimo paradiso, film Netflix original tratto da fatti realmente accaduti (ma in Lucania), racconta di un meridione bello e terribile dove imperversa il caporalato e i delitti di sangue.

Scamarcio è Ciccio Paradiso (da qui forse il titolo, un po’ maldestro), un agricoltore all’alba dei quaranta che non sa “stare al suo posto” e “mette il naso dove non lo deve mettere”. Da tempo si è arreso alla morbidezza delle forme ma con la canotta da bracciante è ancora in grado di far colpo, per lo meno sulla giovane Bianca (Gaia Birmani Amaral, attrice – va detto – fuori età per il ruolo). Il problema è che Ciccio è sposato e ha un figlio, mentre lei è la figlioletta dell’ottimo Antonio Gerardi, temutissimo latifondista che da anni nelle Murge spadroneggia e detta legge. Il nostro eroe da tempo conduce per l’anima di lei e di Gravina, una battaglia su più fronti: incita gli amici contadini ad esigere più diritti e l’amante a mollare tutto e fuggire con lui. Sembra proprio destino che si arrivi alla tragica resa dei conti con il famigerato Cumpa’ Schettino, e il risultato è presto detto. A rimescolare ulteriormente le carte in tavola, l’arrivo del secondo Paradiso, Antonio fratello di Ciccio, anni prima emigrato a Trieste.

L’ultimo paradiso è un dramma con una valenza storica e di denuncia che lega l’amore al desiderio di libertà, con il secondo fine di analizzare le contraddizioni dell’inscindibile legame tra uomo e terra d’origine. Vediamo che chi rimane non vede l’ora di andar via, mentre chi ha avuto la forza di fare il grande passo è ora assalito dalla nostalgia e fatica a recidere il cordone. Da qui la divisione del film, due fasi simmetriche in forma e durata. Il protagonista, salvo un breve cambio d’abito, un paio di baffi nuovi e una generosa passata di gelatina, è letteralmente lo stesso. 

C’è da dire però, che nella pratica la gestione di questa suddivisione narrativa non riesce come dovrebbe. Colpa, forse, di una realizzazione work in progress che lo stesso Scamarcio confessa di aver adottato. Il potenziale della storia rimane per lo più inespresso, i personaggi solo abbozzati ci lasciano pensare – facendo qualche speculazione – a una volontà ultima di creare possibili archetipi: padri, padroni, padri padroni, donne piegate a un onore tutto altrui. Una possibile conferma la ritroviamo in un finale sognante (cambiato in corsa e reso nella fretta ancor più indecifrabile?). Il reale e l’irreale, non più distinguibili, sfumano in una dimensione favolistica e volutamente onirica.