Georgetown è disponibile alla visione sulle piattaforme Sky Primafila PREMIERE, Apple TV, Chili, Google Play, Infinity e Tim Vision.

A più di dieci anni dai ruoli maggiormente iconici della filmografia tarantiniana, Christoph Waltz fa il suo debutto alla regia con un crime intitolato Georgetown, il nome del quartiere chic che fa da sfondo alla tumultuosa storia (vera) di Ulrich Mott, di cui è anche interprete. 

Protagonista di un articolo del New York Times intitolato Il peggior matrimonio di Georgetown, Ulrich Gero Mott, meglio noto come Albrecht Gero Muth, è un abile affabulatore ciarlatano salito agli onori della cronaca per il suo matrimonio finito in tragedia con un’affermata giornalista, Amanda Brecht. Tra i due, anche se ad interpretarla è un’ancora raggiante Vanessa Redgrave all’alba degli ottanta, intercorrono trent’anni di differenza. È chiaro fin dal loro primo incontro, quando Waltz sfodera uno dei suoi sguardi più sordidi e malevoli, che le mire di Ulrich sono ben altre che far da balia o da maggiordomo a quella che potrebbe essere sua madre. 

Ambiguo, astuto quanto ambizioso e affascinante. Sfrutterà le conoscenze di alto profilo condivise da una moglie facilmente raggirabile e compiacente – Amanda crede sinceramente nelle potenzialità del marito – e le innate doti taumaturgiche per raggiungere le sue più grandi ambizioni. Da guida turistica stagista alla Casa Bianca a re dei salotti, rilegge lo schema Ponzi e si fa largo nell’ambiente diplomatico della capitale americana a suon di balle e aforismi churchilliani. Legione straniera, generale delle forze speciali in Irak, o forse nessuna delle due? Non si sa con esattezza, ma nei suoi incontri all’avvolgente galanteria accompagna sempre l’impeccabile divisa che ci riporta alle SS del colonnello Hans in Bastardi senza gloria. “La diplomazia è l’arte di dire alla gente di andare all’inferno in modo tale che ti chiedano indicazioni”, recita durante la cena poche ore prima dell’improvvisa dipartita della vecchia consorte. È a questo punto della storia, sospettato di omicidio, che iniziano ad emergere le sue losche manovre e gli sporchi intrighi. Il castello di carte – per citare la celebre serie con Kevin Spacey – comincerà lentamente a crollargli sulla testa, pezzo dopo pezzo.

Un esordio per Christopher Waltz certo non troppo brillante. La sua regia alle volte appare ingessata, non nasconde una certa difficoltà nel ricreare la tensione narrativa e la scorrevolezza travolgente propria di una buona crime story quale invece poteva essere Georgetown. 

Il suo Ulrich è ambiguo e dal fascino potenzialmente corrosivo quanto il coniuge altrettanto tirannico e bugiardo di Big Eyes, sempre scaltro ma anche un po’ cialtrone. Nel film di Tim Burton il ruolo dell’attore austriaco era però quello di contraltare con chiara funzione di antagonista, probabilmente la dimensione in cui le sue capacità si esprimono davvero al meglio. L’errore più imperdonabile? Non aver saputo valorizzare, come invece registi esperti e capaci hanno fatto in passato, la sua stessa espressività, sempre puntuale e qui invece quasi sovrabbondante.

Ma Georgetown con il suo gioco di specchi, riuscito o meno, punta i riflettori sulla realtà. La cerchia ristretta dei potenti, la cabina di regia, la stanza dei bottoni è davvero così impenetrabile? La risposta di C. Waltz è: dipende solo da te. Per il trasformista Ulrich Mott, che ha saputo sfruttare le falle del sistema per spingerlo al limite, non lo è stato. 

D’altronde puntare all’obiettivo e raggiungerlo, costi quel che costi, è ciò che predica il sogno americano, è nel dna della nazione e il mito del self made man ne è la piena testimonianza. Una figura che sempre attrae, e come un passepartout veicolato dalla fortuna e l’audacia del singolo apre le porte dei salotti giusti, in forza di quella cultura del successo che non teme devianza ne conseguenze.