Furino Capitanodella più bella Juventus di sempre

 

Sarebbe facile parlare di calcio attraverso le cifre, ma oltre ai numeri c’è stata la grinta, il coraggio, la perseveranza e l’impegno. Tutti quelli di ogni generazione hanno potuto applaudire il capitano di lunga milizia della Juventus, e giocatore della nazionale vicecampione del mondo nel 1970 Giuseppe Furino.

“Sono qualità importanti, quelle che lei ha citato, senza di quelle non raggiungi nessun obiettivo. Non ci sono le doti tecniche, ci sono altre qualità morali, caratteriali, che sono fondamentali, per arrivare a raggiungere i traguardi”.

Lei è un orgoglioso siciliano di Palermo.

“Sono orgoglioso di quello che ho fatto. Al di là di quell’anno che ho vissuto da calciatore a Palermo, poi ci sono stato poco”.

L’ha abbracciata la Torino bianconera e lei ha contraccambiato con incredibile costanza di rendimento e, me lo lasci dire, tutti gli avversari uscivano dal campo sapendo di aver avuto di fronte un gran centrocampista. Uno che non ha mai mollato e se poteva incoraggiava sempre il compagno, che magari sbagliava un passaggio.
“Questo sì, quello che dice corrisponde al vero e ne ho la prova. Ebbi modo di incontrare, per altre situazioni, un avversario molto qualificato, molto bravo. Una bandiera di una società importante di Calcio, che disse che quando sapeva che avrebbe giocato contro di me, per lui era una giornata di quelle…”.
Complicata!
“Quella persona è stata un grandissimo calciatore”.

Gianni Rivera?

“No, era di una squadra non del Nord: era Juliano del Napoli”.

Lei rappresenta il periodo più aureo della Juve e non solo per i risultati ed i numeri, già rappresentativi, per ciò che ha fatto con i bianconeri, in Italia e in Europa. Ricordo da bambino, davanti alla tv, quando uscivate da campi caldissimi, come Bilbao o Bruges, riscuotevate sempre tanti applausi, da chi prima vi fischiava, mentre giocavate.

“Devo dire che quelle squadre contro cui ho giocato, si facevano apprezzare non solo per il gioco, ma anche per le doti caratteriali e morali, che erano fondamentali, per raggiungere gli obiettivi. La squadra che ha citato, ad esempio quella di Belgrado (in realtà è stato un lapsus, era Bilbao, n.d.r.), aveva tanti attributi”.
Parlando della Juve odierna, pensa che l’arrivo di Ronaldo, possa essere un apripista, per la conquista dell’Europa?

“Credo che ci sia un miglioramento tecnico di tutta la rosa. Non credo sia dovuto solo all’arrivo di Ronaldo, anche se contribuisce ovviamente a qualificare il gioco ed a renderlo oltremodo imprevedibile. Lui ha qualità, fisico, elevazione, ha tecnica, è veloce”

Tanta roba!

“Tante cose, che messe assieme, contribuiscono a migliorare la fase offensiva”.
Possiamo dire che quando difende anche sui calci d’angolo avversari, rappresenta, incarna, lo spirito che lei mostrava da grande atleta?

“Tutti i giocatori che arrivano alla Juventus, hanno un ruolo importante, che non è solo quello di fare gol ma anche di non prenderne. C’era un allenatore, Carniglia, che disse, quando lo conobbi, presentandosi una cosa importantissima, valida allora, come adesso. Lo disse in spagnolo “Se ataca in once, se difende, in once”. Valido 30 anni fa ed ancora ora”.
Mi sembra che dopo anni andati a vuoto, la Juve ha una rosa finalmente completa. Lei quando arrivò a Torino, quale periodo visse, sul piano delle incertezze?
“Tornai alla Juve dopo 3 anni in cui ero stato fuori. Ero cresciuto con la Juventus, nel settore giovanile, poi ho fatto tre annate fuori e sono rientrato. Entrai in punta di piedi, anche se la società e i dirigenti mi conoscevano bene. Ebbi modo di entrare in un ambiente a me noto, misi le mie doti morali, caratteriali e di gioco e, pur essendo un ragazzo che rientrava dai prestiti, quell’anno feci 30 partite su 30. Neanche un raffreddore!”.
Vero che con gente dello spessore, dell’umanità, della grande conoscenza psicologica degli atleti, ad esempio Boniperti, bastasse uno sguardo?

“Boniperti era un uomo di Calcio. Aveva vissuto periodi diversi, ma il calcio lo si conosce, senza voler essere eccessivamente spocchiosi. Ognuno di noi ha il proprio credo, le caratteristiche si apprezzano, dei giocatori. Lui era un uomo che amava un certo tipo di calcio e la cosa importante, non gli ho mai sentito dire “Tu oggi non hai giocato bene”, ad un giocatore. Al massimo gli diceva “tu non hai sudato abbastanza, per la maglia”. Non guardava se si sbagliava un tiro in porta o un controllo di palla, come lo si guarda anche oggi: badava alla sostanza, non alla forma”.

Anche da tecnico lei ha costruito un grande settore giovanile, con Cuccureddu tecnico . Che tipo di impostazione, di prospettiva, bisogna avere, per fare questo, in una società esigente, come la Juventus?

“Innanzitutto formare un grande organico di tecnici, di persone che sono in grado di saper spiegare l’essenza del gioco del Calcio. Soprattutto se durante le esercitazioni, i ragazzi dovessero sbagliare, cercare di dimostrare, fare esempi ed eseguire il controllo della palla. Durante le partite, cercare di non offendere. Alcuni tecnici li sgridano urlando “sveglia, sveglia!”, senza capire l’errore che hanno commesso. Quando un ragazzo sbaglia, lo capisce anche lui, l’errore”.
Ha ragione Capello quando dice che a livello giovanile si vede e si sente di tutto?
“Non necessariamente. Ci sono dei tecnici che sanno stare con i ragazzi ed anche tecnicamente sanno dimostrare il gioco”.

Lei ha vissuto due modi diversi, di stare a fianco del carisma: quello più rumoroso di Trapattoni e quello più pacato di Zoff. Ci fa una fotografia di questi immensi personaggi?

“Erano abbastanza simili, devo dire. Credo che il Calcio sia uno solo, che non è sempre e soltanto quello di portare a casa il risultato. La vittoria è fondamentale, condiziona il pensiero, ma anche come ci si arriva è importante. Zoff è stato molto con Trapattoni, ha avuto modo di apprezzarne le qualità, anche dialettiche. Anche quando preparava la partita. Non so Dino, come le preparasse, ma credo che abbia imparato molto. Trapattoni si soffermava sui particolari, entrava nei concetti di gioco e faceva vivere la partita in un modo importante, quando la presentava. Per me si assomigliavano, avevano grandi concetti di gioco, tutti e due”.

Tutti hanno etichettato Zoff come troppo serio, ma è vero che in realtà è una persona molto allegra?

“Sapeva scherzare, in compagnia era gioviale e ci si trovava bene”.
Da buon friulano…

“Era una persona seria. Poco avvezza a essere troppo evanescente, era una persona che amava far le cose per bene”.

La Juventus è in fuga in campionato, ma ha il doppio, anzi triplo binario con le coppe. Molto lunga ancora la strada. Quali sono le variabili, che può incontrare, nel cammino, in Serie A?

“Il fatto stesso che, da sempre, ne abbiano parlato i vecchi di allora e credo che il concetto si trasmetta ancora. Ai miei tempi la vittoria era importante, valeva 2 punti, ora 3, e ancora di più adesso. Vale con qualsiasi squadra, contro il Real Madrid o il Barcellona o contro, senza togliere nulla, al Palermo…”.

Degli anni 80 Avellino, Palermo, Catania…

“E’ importante non disperdere i risultati, in prestazioni non attente. La forza della Juventus è sempre stata quella: raggiungere obiettivi e traguardi senza aver bisogno delle motivazioni. La motivazione cosa vuol dire? Andare in campo e conquistare la partita. Allora non avevamo bisogno della squadra importante contro, per avere le motivazioni; la vittoria la volevamo sia con una squadra di categoria più bassa che più alta. Era lo stesso punteggio”.
Lei ha vinto 8 campionati italiani. Ogni tanto, si ferma a pensare che è uno degli uomini record, a livello europeo?
“Io ormai mi fermo a pensare che il tempo è volato via troppo in fretta! Per fortuna siamo ancora qui, a poterla raccontare”.
Quanto è stato complicato vincere nel 1977 la Coppa Uefa, quando le competizioni europee erano tre, e nel 1984 la Coppa delle Coppe?
“Per noi fu importante, complicato comunque. Soprattutto nella partita di Bilbao, quella della Coppa Uefa. Quella fu una partita, soprattutto la gara di ritorno, che ci permise di raggiungere la vittoria, ma con tanta, tanta sofferenza e sacrificio. D’altronde, senza quelle doti non raggiungi nessun obiettivo. Bella, poi, la finale di Basilea, che fu qualcosa di diverso. Io ero seduto in panchina, ma quella partita fu giocata dalla Juventus in un modo spavaldo. Le differenze si vedevano ed erano importanti”.

Testo raccolto da Giulio Dionisi