Sta sollevando molte polemiche  il progetto di creare una task force di 500 professori universitari , di “chiara fama” da immettere nell’università italiana come una sorta di linfa vitale per rianimarla.

Una buona notizia , si sarebbe tentati di dire: più fondi all’università, nuovi ricercatori assunti, la possibilità di dare impulso alla ricerca, un inserimento nell’università  per molti studiosi ritenuti idonei,  ma da mesi “parcheggiati” , a volte senza stipendio, in attesa della tanto ambita “chiamata”. In realtà niente di tutto questo, o meglio, poco di quanto appena prospettato.  Il progetto prevede di “arruolare” pro tempore, cioè per tre anni, cinquecento studiosi italiani residenti all’estero ( i famosi “cervelli in fuga”) che hanno avuto oggettivi riconoscimenti delle loro capacità  (all’estero, ovviamente) , richiamati nella patria pentita (pro tempore, anche il pentimento), per salvare quell’università italiana che li aveva respinti e costretti a salir “l’altrui scale”, come dice il Poeta. Per tre anni e poi? Per realizzare il progetto: si parla di 36 milioni di euro per il primo anno, che andrà a crescere negli anni seguenti, investimenti che per il momento sono per un progetto a tempo determinato  non una prima fase di una riforma universitaria , ma c’è chi ha avanzato qualche dubbio, a partire dal modo in cui sembra dovrebbero essere assegnati gli incarichi a questi 500 studiosi. Attraverso 25 commissioni formate da tre membri , con il presidente nominato “con decreto del Presidente del Consiglio su proposta del Ministero dell’Università e Ricerca”, di fatto si tratta di un segnale di sfiducia verso la capacità selettiva dell’università italiana. Una volta scelti questi 500 docenti di chiara fama che cosa dovrebbero fare per rivitalizzare i nostri poveri atenei? Un docente insegna, in secundis fa ricerca e se la fa bene consegue dei risultati, che ovviamente dipendono dagli ambiti scientifici e disciplinari: un archeologo riuscirà a meglio definire qualche aspetto del nostro passato, un astronomo a portare un pò di luce in qualche angolo in ombra dell’universo , un filosofo a rendere più consapevoli e coscienti le persone , un patologo a renderle meno vulnerabili. Ma un docente dovrebbe occuparsi anche di altre cose importanti: ad esempio formare altri studiosi, aiutarli a fare ricerca in modo adeguato e proficuo. A questo e ad altro, sembrerebbe: il progetto, a detta di alcuni commentatori, avrebbe anche un risvolto legato al marketing , cioè attirare investimenti privati su progetti diretti da questi docenti.

Qualche breve considerazione: uno stimolo alla ricerca del sistema universitario non può essere dato con iniziative a tempo determinato, ma cercando di “stimolare” il sistema nel suo complesso e nel corso del tempo. Seconda questione: appare un pò ingenuo, ammesso che questo si voglia, pensare di richiamare investimenti privati su progetti triennali, soprattutto perché affidati a studiosi noti ed apprezzati. Gli investitori privati finanziano una ricerca solo se c’è un ritorno economico certo e realizzato in tempi relativamente brevi. È questo uno dei motivi che spiega la difficoltà di trovare finanziamenti privati alla ricerca di base, che quasi mai ha risvolti applicativi e tempi brevi di realizzazione.

Ma come sarebbe possibile migliorare e stimolare in modo organico e permanente l’università italiana? Innanzitutto evitando interventi spot, a tempo determinato e l’idea di soluzioni miracolistiche a base di salvatori della patria e programmi triennali. Il fenomeno del nepotismo non si combatte con il commissariamento delle commissioni che selezionano i docenti. È soprattutto una questione di civiltà e di cultura, non solo giuridica, che non porterà risultati se non verrà fatta propria dal mondo accademico nel suo complesso. Per migliorare la qualità della ricerca occorre semplicemente stimolare e riconoscere la buona ricerca, monitorandone la qualità e la costanza  e ricompensando  quelli che mostrano costanza  ed ottengono risultati, non solo le università, come in parte avviene, ma anche i singoli ricercatori, come accade in altri paesi come la Spagna. Con investimenti adeguati che non solo permettano ai ricercatori italiani che sono andati all’estero di tornare in Italia, ma soprattutto ai ricercatori italiani del presente e del futuro di evitare la via dell’”esilio”. Ci resta però una consolazione, se il decreto Natta fosse attuato con successo, nell’attuale formulazione, potremmo applicarlo anche in altri campi, a partire dalla politica: 500 politici italiani di chiara fama che vivono all’estero, fatti tornare in Italia, con un programma di 1000 giorni, per risolvere problemi come la spazzatura a Roma, il dissesto geologico, la corruzione in ambito politico, il malaffare degli appalti e via dicendo. Con contratto triennale rinnovabile a scadenza. Parafrasando una frase di Bertold Brecht, si potrebbe concludere con una battuta: “Beato il popolo che non ha bisogno di salvatori della patria”, neanche di quelli a scadenza triennale.

Prof. Enrico ferri, docente di Filosofia del diritto e Storia dei Paesi islamici all’Unicusano