Quando penso alla strage di Bologna, oltre allo schifo, alla rabbia, alla nausea che ogni volta provo, mi viene in mente una domanda: esiste martirio più doloroso di un martirio inutile? 

La risposta è no. Non esiste. Non esiste martirio più doloroso del martirio inutile. E in Italia di martiri  inutili negli ultimi 40 anni del ‘900 ne abbiamo avuti tanti, troppi, come scrivono Roberto Alaimo e Lidia Ravera,  nel loro testo, splendido quanto amaro, “Guida a 49 martiri della Storia D’Italia”, edito da Giudizio Universale.

Sulla Strage di Bologna si è detto e si è scritto tutto. Troppo. E inutilmente. Perché è impossibile che ancora non esista a distanza di trentacinque anni una verità ufficiale su quello che molti considerano un vero e proprio attentato di stato.

Tre le parole da tenere a mente quando si parla della Strage di Bologna. Memoria, verità, giustizia. Memoria, perché il dolore sprigionato in quel due agosto non dovrà mai più tornare. Verità, perché la Repubblica Italiana non deve farsi andar bene una storia incompleta sulle stragi  di cui è stata teatro negli anni di piombo. E,  di conseguenza, anche giustizia, perché le colpe di questi atti infami non vengano espiate solo da alcuni, ma sia fatta piena luce anche sui mandanti di queste stragi feroci.

A 35 anni dalla strage alla stazione di Bologna, che il 2 agosto 1980 fece 85 morti e oltre 200 feriti, la storia che vi voglio raccontare è quella Sergio Secci.

Sergio nel giorno della strage di Bologna ha 24 anni. Ed è felice, perché il mese d’agosto è iniziato da poco e sente nell’aria un profumo di vacanza, di festa, di libertà e di allegria. Sergio ha conseguito la laurea al Dams di Bologna con una tesi incentrata sul teatro. Lavora a Bolzano. Ha tutta la vita davanti, una famiglia che ama e che si riempe di luce ogni volta che lo osserva, un padre di cui è orgoglioso, che ha partecipato alla guerra, a Cefalonia, che chiama sempre, tutte le sere, per dirgli che sta bene, che è tutto ok, che non deve stare in pensiero.

Sergio avverte sempre a casa dei suoi spostamenti. Chiama anche in quel 2 agosto. Dice a casa che sta tornando a Bolzano, ma che prima farà un salto a Verona, così vedrà l’amico Ferruccio, prendendo il treno delle 8.18 da Bologna.

Il caldo piega le ginocchia, si suda, l’estate scorre regolare e impetuosa al tempo stesso e Sergio ha un senso d’allegria che non va via. Non va via, il senso d’allegria di Sergio, nemmeno quando si accorge di aver perso la coincidenza con il treno delle 8.18.

Che senso avrebbe arrabbiarsi, starà di meno col suo amico, ma pazienza. Certo bisogna avvisarlo: “Ehi ferruccio, arrivo due ore dopo, ma avremo comunque il tempo di fare quattro chiacchiere”.

Chissà, magari Sergio ha con se un libro da leggere, magari ha acquistato un quotidiano. E’ seduto nella sala d’attesa dei viaggiatori di seconda classe. A un certo punto, all’improvviso, rumore e dolore. Esplode la bomba. Quella bomba che dilania il suo giovane corpo, facendolo volare via. Lontano almeno una ventina di metri.

Che cosa è successo? Nessuno lo capisce. E’ il caos. E’ l’inferno. L’umana follia figlia di una strategia balorda non può essere capita da chi si ritrova davanti a una scena apocalittica fatta di urla, lamenti, sangue, morte, polvere.

Sono le sette di sera. Stavolta a prendere il telefono è Ferruccio, l’amico di Sergio. Deve avvertire la famiglia del suo amico. Deve avvisare il padre di Sergio che Sergio non ha preso il treno delle 8.18.

Per il padre di Sergio il tempo si ferma. Ha già visto le immagini della strage di Bologna. In tv i telegiornali non parlano d’altro. Ma finché aveva la certezza che Sergio a quell’ora fosse già lontano da quella maledetta stazione, le immagini dell’inferno generavano orrore e incredulità.

Orrore e incredulità che per il papà di Sergio sono diventati all’improvviso strazio. Sofferenza eterna. Magone insopportabile.

Il tre agosto Sergio lotta tra vita e la morte all’ospedale di Bologna, nel reparto di rianimazione. Ha una gamba amputata, la faccia e le braccia ustionate, un polmone bruciato. Muore quattro giorni dopo, il sette agosto. Lasciando una famiglia a pezzi. E un padre che fino al 1996 ha vissuto con un unico obiettivo: avere giustizia.

Lo hanno rimborsato con 100 milioni. Questo valeva un figlio con tutta la vita davanti, ammazzato senza un perché mentre l’aria profumava d’estate. No. No. Eppure qualcuno pensa che ottantacinque morti valgano qualche milione. Decisamente meno di chissà quale inconfessabile segreto di Stato.