Arriva da quella fortunata stagione del Nuovo Rock Napoletano degli anni ottanta e, ancor prima, dal Conservatorio San Pietro a Majella. Stiamo parlando di Marco Gesualdi, un nome forse poco noto al grande pubblico ma molto amato da chi vive nella musica italiana. Tra collaborazioni importanti, concerti memorabili e corsi di insegnamento di grande intensità, la vita di Gesualdi è stata sempre uno spettacolo d’arti varie che ora confluisce in un album intitolato “Open Heart”. La presentazione di questo lavoro unico avverrà, con performance live dell’artista, presso il Pan (Palazzo delle Arti di Napoli) il 19 del mese alle 17.30 all’interno della mostra ROCK 5, organizzata da Michelangelo Jossa e Carmine Aymone, quest’anno dedicata a Pino Daniele. Conosciamo meglio Marco Gesualdi dalle sue stesse parole.

Dietro ad un album c’è sempre una necessità: la tua era quella di trovare la “Felicidà”?
La mia urgenza, più che necessità, è di raccontare a cuore aperto il mio rapporto emozionale con la musica. “Felicidà” è per me una cosa molto profonda… la ricerca della verità che passa attraverso i solchi del quotidiano e le sue frequenze.

Come mai questa canzone è cantata in portoghese?
Il testo originale era in italiano, la traduzione in portoghese è un idea di Ivana Muscoso la cantante del brano che ben interpreta  la saudage e il calore della song.

Cosa spinge un musicista a pubblicare un album quasi interamente strumentale in questi anni così difficili per la musica?
Si possono raccontare storie senza troppe parole, o adoperarle quando servono, o quando sono realmente “sentite”. A volte la musica è più evocativa di mille inutili parole.

Ti ritieni un artigiano dell’arte? Non temi di essere distrutto dai “centri commerciali” del momento?
Sicuramente mi ritengo un artigiano, un musicista lavora sul calco al pari di tanti altri. Mi piace comporre autonomamente e non fare i conti necessariamente con le grosse realtà produttive; ognuno in fondo ha una sua strada, e il suo percorso.

Eugenio Bennato, James Senese, Mariapia De Vito… sassolini del tuo lungo percorso da Pollicino?
Eugenio, James e Mariapia, insieme a tanti altri, sono stati dei bellissimi momenti del mio percorso musicale. Da loro ho imparato molto e li ricordo sempre con affetto ed ammirazione.

La copertina dell’album, che è l’immagine dell’articolo, è molto bella. Ce ne parli?
La mano di Open Heart è un quadro di Bruno Fermariello  realizzato in un laboratorio allestito in un campo rom a “Scampia”, quartiere periferico di Napoli. Mi ha colpito per i simboli onirici e ancestrali che appartengono alla cultura rom e il legame profondo tra le vita vissuta e il mistero del divenire.

Considerato il tuo background, è possibile vederti come un Robin Hood della musica? Rubi ai ricchi del passato per donare ai poveri… ascoltatori del presente?
Sicuramente la mia sala prove è nella foresta di Sherwood! A parte gli scherzi, nella mia musica ci sono i miei ascolti, la mia vita e le mie esperienze.

Ti regalo un arco con una freccia. Verso chi la scocchi?
Prendo la mira e punto al cuore degli ascoltatori: spero di emozionarli, e coinvolgerli, nelle mie piccole” Visioni”.