28 Dec, 2025 - 16:53

Attacchi di panico: quando la mente chiede aiuto

In collaborazione con
Maria Scozzafava
Attacchi di panico: quando la mente chiede aiuto

Ultimamente si parla sempre di più di salute mentale, soprattutto tra i giovani. Se ne parla sui social, nei media, nelle conversazioni quotidiane. Eppure, quando il tema diventa personale, reale, vissuto sulla propria pelle, spesso cala il silenzio, l’imbarazzo. Gli attacchi di panico sono una delle manifestazioni emotive più difficili da raccontare e da comprendere, soprattutto per chi non le ha mai provate. Arrivano improvvisamente, senza avvisare, lasciandoti addosso solo una sensazione di paura, peso un’ qualcosa di troppo difficile da spiegare a parole. Molti pensano siano solo capricci o debolezze, ma nella realtà sono segnali che la mente invia quando qualcosa dentro di noi chiede attenzione. 

Quando il panico arriva senza bussare

Spesso non viene compresa la difficoltà delle persone che ne soffrono, proprio perché un attacco di panico può arrivare veramente in qualsiasi momento: durante una fila al supermercato, sul treno, a lavoro, durante un esame o semplicemente nella propria stanza . Il corpo reagisce in modo improvviso e violento: il cuore inizia a battere forte, le gambe diventano pesanti, il respiro si accorcia e le mani tremano.

Ma la cosa più brutta è la testa che si riempie di pensieri incontrollabili, fino a perdere il controllo del proprio corpo, entrando in quella convinzione di svenire o addirittura di morire. Anche se non c’è un pericolo reale, il corpo si comporta come se fosse in emergenza. Chi lo vive o lo ha vissuto come me, puoi assicurarvi che chi vive un attacco di panico spesso si sente solo, confuso e spaventato, perché fatica a spiegare cosa gli sta succedendo e teme di non essere capito o addirittura creduto. 

Il silenzio che circonda gli attacchi di panico

Nonostante oggi si parli apertamente degli attacchi di panico, nelle scuole, in famiglia. Gli attacchi di panico restano ancora un tabù. Molti giovani evitano di raccontare la propria esperienza per paura di sembrare fragili o di essere etichettati come “ instabili”.

Oggi le statistiche affermano che oltre il 50% dei giovani tra i 15 e i 20 anni soffrono di attacchi di panico. Questo dato dovrebbe far riflettere le istituzioni cercando di sensibilizzare maggiormente tutti gli ambienti lavorativi ma soprattutto scolastici, che prendono sempre sottogamba questo problema pensando sia solo un capriccio dei ragazzi.

Questo silenzio pesa più del panico stesso, perché trasforma una difficoltà condivisa da molti in una battaglia individuale. 

La pressione quotidiana e il peso delle aspettative

Viviamo in una società che corre veloce e chiede sempre di più. Bisogna essere produttivi, performanti, sempre presenti e brillanti, sempre all’altezza. Tra studio, lavoro, incertezze economiche, confronto continuo sui social e aspettative familiari, molti giovani si sentono schiacciati da una pressione costante.

Gli attacchi di panico raramente nascono dal nulla. Spesso sono il risultato di un accumulo di stress, paure, insicurezze e responsabilità che non trovano spazio per essere ascoltate. La mente, a un certo punto si ferma, e chiede aiuto nel modo più rumoroso possibile.

Iniziare a parlare degli attacchi di panico significa anche imparare ad ascoltarsi. Non vuol dire eliminare la paura, ma riconoscerla, accettarla e cercare di comprenderne l’origine. Chiedere aiuto ad uno specialista o semplicemente ammettere di non stare bene non è un fallimento è amore verso sé stessi. 

La fragilità dell’essere umano

Affrontare questo tema significa analizzare il contesto sociale in cui viviamo. Serve una cultura che non premia solo la forza apparente ma che sappia accogliere anche le fragilità, normalizzando il disagio sociale. Questo può avvenire solo creando spazi di ascolto, nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro e nella quotidianità.

Gli attacchi di panico non definiscono una persona, parlarne apertamente è il primo passo per rompere il silenzio e costruire una società più empatica, dove chiedere aiuto non è visto come una debolezza, ma come una forma di rispetto verso sé stessi. Perché la vera forza non sta nel resistere sempre, ma nel sapersi fermare, ascoltare e prendersi cura di sé.

A cura di Maria Scozzafava

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