25 Dec, 2025 - 11:30

"Un inverno in Corea": opera prima per il regista Koya Kamura

"Un inverno in Corea": opera prima per il regista Koya Kamura

Non so se sarò mai in grado di spiegare in modo chiaro come ci si sente a crescere senza una figura paterna. Certo, credo che per ciascuno che si trovi nella medesima situazione ci sia un vissuto diverso, unico, interiorizzato a modo proprio. Io, ad esempio, custodisco da anni un groviglio intricato in testa fatto di emozioni, pensieri, riflessioni che hanno sempre fatto a pugni fra loro. Se da un lato venire allevata in un gineceo, dove quasi nessuna presenza maschile era ammessa, mi è piaciuto moltissimo, da qualche anno, tirando le somme delle mie esperienze, soprattutto quelle sentimentali, non posso fare a meno di domandarmi cosa sarebbe successo se avessi avuto al mio fianco un papà in grado di proteggermi davvero. Sicuramente però non ho mai dovuto chiedermi chi fosse mio padre, né ho mai provato l’istinto viscerale di volerlo conoscere.

Non è così invece per la protagonista del libro Winter in Sokcho, della scrittrice Elisa Shua Dusapin. Al centro della narrazione c’è una giovane donna, della quale non ci è dato sapere il nome, nata e cresciuta a Sokcho, una cittadina sul mare nel Sud della Corea, al confine con la Corea del Nord e attaccata alla DMZ. Lavora come receptionist in una piccola pensione di proprietà di un signore vedovo, che le è molto affezionato. Di suo padre non sa nulla, se non che è francese. Circa 26 anni fa aveva conosciuto sua madre a Sokcho e aveva intrattenuto con lei una relazione amorosa, ma era ripartito prima ancora di sapere della gravidanza. Di questa mancata presenza lei ne ha risentito per tutta la vita, chiedendosi ogni giorno che volto potesse avere quel genitore perduto o che tipo di persona fosse e se sarebbe stato in grado di amarla, avendo la possibilità di starle accanto. L’inverno in una città così piccina sembra immobilizzare tutto, lasciando ogni cosa sospesa nel gelo desolante e silenzioso di un luogo dimenticato da Dio, e in un’atmosfera talmente ferma che i pensieri si fanno più pesanti, come un martello che incessantemente picchia e picchia ancora, non concedendo tregua. Ma l’arrivo di Yan Kerrand, un noto fumettista francese di fama internazionale, sconvolgerà la quiete e le giornate della protagonista, che scambierà un parallelismo inconscio con la mancata figura paterna per un interesse romantico. 

Il romanzo, caratterizzato da intime riflessioni interiorizzate, ci viene narrato dal punto di vista del personaggio principale. L’idea di silenzio avvolto nella brezza ghiacciata, come un granello di polvere fermo nell’aria, è una delle caratteristiche che ha più attratto il cineasta franco-giapponese Koya Kamura e che lo ha spinto a scegliere questo soggetto per il suo esordio cinematografico. Difatti Un inverno in Corea, presentato in anteprima mondiale a settembre 2024 al Toronto International Film Festival, nella sezione Platform Prize, e poi distribuito nelle sale italiane a partire dall’11 dicembre 2025, è la sua opera prima.

La sceneggiatura però, scritta dal regista stesso insieme allo sceneggiatore Stéphane Ly-Cuong, sceglie di dare un nome alla protagonista, chiamandola Sooha, interpretata dall’attrice Bella Kim, e di sostituire la voce narrante della stessa con disegni animati molto affascinanti, che aiutano lo spettatore a curiosare saltellando fra i pensieri di lei. I dialoghi, minimi e sporadici, sono ridotti all’osso per lasciare che a raccontare il dolore, la solitudine, l’angoscia, il desiderio e la disperazione siano le immagini e non tanto le parole.

Sia chiaro, questa non è la rappresentazione di una vicenda romantica; piuttosto di una donna, abbandonata dal padre prima ancora che nascesse, che attraverso la ricerca di risposte tenta di raggiungere la sua rinascita. Koya Kamura ha confessato di aver riconosciuto in questa storia di fantasia certe similitudini che gli ricordano il suo vissuto personale, essendo da sempre, ad esempio, in perenne conflitto fra le sue due diverse origini, quella francese e quella giapponese, e di sentirsi tutt’ora solo e come diviso a metà. Ho trovato l’intero lungometraggio ammaliante, magnetico, piacevole, che si fa guardare con trasporto. Splendido inizio per Kamura, che ha confezionato una pellicola che affronta anche le emozioni più cupe con delicato riguardo. 3,8 stelle su 5.

 

 

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