C’è un momento preciso in cui il caso del giudice italiano della Corte penale internazionale Salvatore Aitala smette di essere una vicenda giudiziaria e diventa un fatto politico di prima grandezza. È quando Sergio Mattarella decide di intervenire pubblicamente, con parole durissime, contro la condanna emessa da un tribunale di Mosca nei confronti di magistrati che hanno firmato il mandato di cattura per Vladimir Putin.
Il Presidente della Repubblica non fa nomi, ma il messaggio è inequivocabile: punire i giudici internazionali per il loro lavoro significa riportare il mondo “al peggiore passato”. Un riferimento che richiama Norimberga, il diritto internazionale, la linea di confine tra civiltà giuridica e arbitrio del potere. Mattarella parla da garante della Costituzione, ma anche da custode della collocazione internazionale dell’Italia.
Il retroscena più rilevante non è però ciò che Mattarella dice, ma ciò che il governo non dice. Da Palazzo Chigi, fino a oggi, nessuna presa di posizione ufficiale forte. Nessuna condanna esplicita del comportamento russo. Nessuna difesa pubblica e formale di un magistrato italiano colpito da una sentenza che ha un chiaro valore politico e intimidatorio.
Nei corridoi ministeriali si parla di “prudenza diplomatica”, di necessità di non alzare i toni, di equilibri internazionali delicati. Ma la sensazione, condivisa da più di un osservatore, è che il silenzio dell’esecutivo sia figlio di una scelta politica: evitare uno scontro diretto con Mosca che possa complicare il posizionamento internazionale del governo (ovvero il rapporto con Trump) e i rapporti con alcune aree dell’elettorato più sensibili a una linea ambigua sulla Russia.
È qui che prende forma la narrazione delle “due Italie”. Da una parte l’Italia rappresentata dal Quirinale, che parla il linguaggio del diritto internazionale, dei valori occidentali, della difesa delle istituzioni multilaterali. Dall’altra l’Italia del governo Meloni, che sul piano formale ribadisce l’appartenenza atlantica ma, nei fatti, evita di esporsi quando il confronto con Putin diventa diretto e concreto.
Il caso Aitala è emblematico perché non riguarda un conflitto lontano o una dichiarazione generica sulla guerra in Ucraina. Riguarda un cittadino italiano, un magistrato, colpito per aver applicato il diritto internazionale. Il mancato intervento del governo viene letto, dentro e fuori dalle istituzioni, come una mancanza di tutela dell’onore nazionale.
Non a caso sulla vicenda è intervenuta anche l’Associazione nazionale magistrati, chiedendo al governo di chiarire e di reagire. Un passaggio che, nei retroscena romani, ha creato ulteriore irritazione a Palazzo Chigi: l’idea che sia il Quirinale, insieme alla magistratura associata, a occupare uno spazio politico lasciato vuoto dall’esecutivo.
Secondo fonti parlamentari, la questione ha aperto un malessere latente anche nella maggioranza, dove non tutti condividono la scelta del silenzio. Ma per ora la linea resta quella della cautela.
L’intervento del Presidente ha anche un destinatario esterno: l’Europa. Mattarella segnala che l’Italia istituzionale non accetta la normalizzazione delle ritorsioni russe contro la giustizia internazionale. È un messaggio che rafforza il profilo del Quirinale come punto di riferimento europeo, mentre indebolisce quello del governo.
In definitiva: quando il governo tace, il Presidente parla. E quando parla, lo fa per ribadire che l’Italia non può permettersi ambiguità su crimini di guerra, giudici internazionali e rispetto del diritto. È da qui che nasce la sensazione di una frattura profonda, non dichiarata ma sempre più evidente, tra due visioni opposte del ruolo dell’Italia nel mondo.