Guardando Il Rapimento di Arabella, già dai primissimi minuti, non si può non pensare ai fratelli Coen. E non come a un gentile omaggio, ma purtroppo come una copia malriuscita di un cinema statunitense che non ci appartiene. Credetemi, mi dispiace molto utilizzare parole aspre per descrivere il secondo lungometraggio di Carolina Cavalli. Non soltanto perché noi donne siamo entrate ben più tardi degli uomini nel mondo del lavoro, e in particolare in quello del cinema, ambiente da sempre caratterizzato da un certo maschilismo tossico, e quindi ognuna di noi indispensabile al progresso che porta con sé un giusto cambiamento. Ma anche perché Carolina Cavalli fa parte della mia generazione, quella di chi è a metà fra i trenta e i quaranta.
Chi come noi è nato a cavallo tra il 1985 e il 1995 si ritrova tristemente in questa sorta di limbo perenne, senza sapere che ne sarà del proprio futuro. Ormai è assicurato che i trentenni e i quarantenni di oggi ristagnino quasi tutti nell’incertezza dei tempi in cui viviamo, partoriti da una generazione che ha potuto permettersi un percorso di vita di sicuro ben più regolare del nostro. E se è vero che l’umanità intera sta attraversando un momento di crisi straordinaria, ritrovarsi in un’età di mezzo fra la spensierata giovinezza e la maturazione adulta, senza aver raggiunto le tappe ritenute fondamentali per un essere umano fatto e cresciuto, genera ogni giorno uno smarrimento esistenziale che miete vittime. Siamo abbrutiti, continuamente annoiati, tristi, soli, afflitti dal peso che porta con sé la precarietà lavorativa e abitativa. Spesso possiamo risultare capricciosi o viziati, pigri, svogliati, ma in realtà è il nostro malessere che grida per noi nella speranza di farci notare.
In qualche modo è di questo che parla la sceneggiatura de Il Rapimento di Arabella, benché la protagonista abbia all’incirca vent’anni. Holly, interpretata da Benedetta Porcaroli, è una ragazza alla deriva, disillusa, priva di ogni idealizzazione per un domani possibile. Cresciuta senza padre, da qualche anno è anche orfana di madre. Una notte, nel parcheggio di un fast food, vede una bambina far finta di zoppicare. Arabella (Lucrezia Guglielmino), dopo essersi avvicinata alla macchina di Holly, le offrirà dei soldi per portarla il più lontano possibile. Holly, convinta che Arabella in realtà sia la sé del passato che è venuta a cercarla per cambiare il loro destino, accetterà e così le due scapperanno insieme.
La pellicola è arrivata nei cinema a tre anni di distanza da Amanda, il lungometraggio d’esordio della Cavalli, sempre con Benedetta Porcaroli nei panni della protagonista. Entrambi interamente scritti e diretti da Carolina, e presentati in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, nei rispettivi anni d’uscita, tutti e due, attraverso un personaggio femminile centrale, spregiudicato e intemperante, ci raccontano l’angoscia vissuta da una gioventù priva di punti fermi. Qual è allora il limite de Il Rapimento di Arabella? La necessità della regista di farsi scudo, mimando l’operato di due artisti troppo lontani dal nostro cinema e senza avere esperienza sufficiente per un progetto così ambizioso.
È come se la Cavalli, spaventata a lasciarsi trascinare dal suo medesimo flusso creativo, rimanesse attaccata alla riva, sbattendo mani e piedi, non prendendo mai il largo. Eppure Carolina sa nuotare davvero e lo sa fare anche bene, di questo ho avuto assoluta certezza proprio durante le ultime scene. Davanti a un bellissimo finale commovente viene fuori incontenibile l’anima di una giovane cineasta, piena di emozioni e traboccante umanità da regalare allo spettatore. Ed è lì che il grottesco scadente e privo d’originalità si eclissa all’ombra di un cuore grande grande, gonfio di dolore e di sentimenti che aspettano solo di trovare il giusto linguaggio per essere decantati a gran voce. Peccato. Per Il Rapimento di Arabella 2,8 stelle su 5.