La promessa è stata chiara, scandita quasi come un vincolo personale: Giorgia Meloni ha assicurato a Volodymyr Zelensky che entro la fine dell’anno l’Italia approverà il nuovo decreto legge per consentire l’invio di forniture militari a Kiev anche per tutto il 2026. Una linea che la premier considera parte integrante della postura internazionale dell’Italia, da non ridiscutere e da blindare politicamente prima dell’inverno.
Il decreto doveva arrivare in Consiglio dei ministri già la settimana scorsa. Poi il rinvio, ufficialmente giustificato dalla necessità di chiudere gli ultimi capitoli della Legge di Bilancio 2026, ancora tra limature e cifre ballerine. Ma dietro lo stop tecnico si muove un secondo livello, molto più politico e molto più delicato. Perché sulla questione ucraina, la maggioranza cammina su un crinale instabile.
In via Bellerio, negli ultimi mesi, è cambiato il vento. I sondaggi interni raccontano di un elettorato leghista sempre più scettico rispetto al prolungamento del sostegno militare al governo di Kiev. Salvini lo sa, e sa anche che lasciare il terreno del “pacifismo” a Giuseppe Conte sarebbe un regalo politico al Movimento 5 Stelle.
Ecco perché nelle riunioni riservate, tra consiglieri e capigruppo, ha preso corpo una strategia che fino a qualche tempo fa sembrava impraticabile: astenersi. Non un voto contrario – che aprirebbe una faglia insanabile – ma un gesto simbolico, calibrato, capace di mandare un segnale alla loro base senza far saltare la maggioranza.
Il piano, raccontato da più di una fonte parlamentare, prevede che i ministri leghisti possano non partecipare al Consiglio dei ministri quando il decreto Ucraina arriverà sul tavolo. Una “assenza strategica”, magari lasciando in sala il solo Roberto Calderoli, il ministro più anziano, per ammonire che la Lega non fugge dal governo ma neppure vuole farsi appiattire.
Una mossa pensata per tenere insieme due fronti: quello interno sempre più insofferente, e quello governativo che Salvini non può rompere, soprattutto ora che la Lega deve negoziare fondi e priorità nella Finanziaria.
Se il Cdm è lo scenario della tensione sotterranea, il Parlamento sarà quello della resa dei conti politica. Come sempre nelle partite sull’Ucraina, si lavorerà a una risoluzione unitaria, necessaria per non mostrare crepe. Ma già oggi i capigruppo sanno che la quadra sarà fragile.
Fratelli d’Italia vuole un testo netto, che confermi l’impegno del 2026 senza ambiguità. La Lega spingerà per formule più “equilibrate”, che aprano spiragli alla richiesta di un percorso diplomatico più incisivo. Forza Italia, come spesso accade, si muoverà come cuscinetto, cercando di smussare le parole troppo dure e di tenere insieme le due anime della coalizione.
Nelle prossime settimane il vero nodo sarà proprio questo: trasformare un atto dovuto sul piano internazionale in un compromesso digeribile sul piano interno. Un esercizio sempre più difficile, soprattutto mentre Zelensky continua a oscillare tra aperture politiche e pressioni militari, mantenendo alta l’incertezza anche sul fronte delle future elezioni ucraine.
Per Giorgia Meloni questa partita è più grande del decreto stesso. L’Italia, nella sua visione, deve mantenere il ruolo di partner affidabile all’interno della NATO e dell’Unione europea, soprattutto in un momento in cui i rapporti di forza internazionali sono in piena trasformazione.
Il messaggio ai leader occidentali è semplice: l’Italia non arretra. Ma mantenere questa postura sarà complicato, soprattutto se Salvini sceglierà davvero la strada della “dissociazione controllata”.
Lo scontro non è aperto, ma è già tutto in scena. E il decreto Ucraina rischia di diventare il primo vero banco di prova di un equilibrio che, per ora, tiene. Ma che comincia a scricchiolare.