La campagna elettorale non è ancora ufficiale, ma le manovre sono già esplose dentro e fuori il Partito democratico. Nel silenzio di incontri riservati e telefonate accese, una domanda risuona come un tamburo di guerra: chi guiderà l’opposizione contro Giorgia Meloni?
Giuseppe Conte ha iniziato la sua scalata con anticipo, accreditandosi come unico volto popolare della sinistra allargata. E mentre il leader Cinquestelle muove i suoi pedoni, Elly Schlein tenta il colpo di teatro. La segretaria del Pd ha valutato, nelle ultime ore, l’idea di modificare lo statuto all’assemblea del 14 dicembre per diventare automaticamente candidata premier in quanto leader del partito.
Un’ipotesi filtrata in modo felpato e poi subito ritirata, come se la segreteria avesse testato la temperatura interna e scoperto che l’acqua era troppo calda. Subito dopo è comparsa una soluzione più morbida: un ordine del giorno che la proclamasse candidata unica. Anche questo, però, è evaporato in poche ore.
Segno di una fragilità che la segretaria conosce bene.
Dentro il Pd convivono due fiumi che scorrono in direzione opposta. Da una parte l’ala sinistra, che vede in Schlein la possibilità di riportare il partito su una linea più identitaria. Dall’altra i riformisti, il pezzo di establishment che sogna un ritorno al pragmatismo europeo, ai voti dei moderati e alle alleanze centriste. È lì che il progetto della segretaria si inceppa.
Il Pd versione Schlein ha riattivato una base emozionale, ma non ha riconquistato il cuore dei moderati, quei voti indispensabili per vincere un’elezione e che oggi vagano tra astensione, Terzo Polo e liste civiche. È una frattura silenziosa ma profonda: si parla poco, ma si pesa moltissimo.
E quando la leader ha provato a forzare la mano sulla premiership, il fronte riformista ha fatto muro. “Non è ancora il momento”, hanno spiegato. In realtà il messaggio è un altro: non è ancora la persona.
Il destino della segretaria si gioca su un filo sottilissimo. Se Schlein spinge per ottenere l’investitura unitaria, rischia di lacerare il partito e di perdere pezzi importanti proprio nel momento decisivo. Ma se rinuncia, consegna la narrazione a Conte, che da settimane lavora per diventare il “candidato naturale” del campo progressista.
Dentro a questa forbice, però, si nasconde un terzo rischio: l’emergere di un candidato alternativo, una figura di raccordo che possa mettere insieme i due mondi che Schlein non riesce ancora a tenere uniti. È lo scenario di cui molti parlano a bassa voce nei corridoi di Montecitorio.
E qui sta il vero dilemma: per imporsi, la segretaria dovrebbe mostrarsi più forte di tutti; ma forzare significherebbe offrire ai suoi avversari interni l’occasione perfetta per indebolirla.
In questa partita, ogni gesto di Schlein viene osservato con una lente d’ingrandimento. I suoi sostenitori la spingono a non arretrare, a compiere quel salto che trasformerebbe la sua leadership in qualcosa di definitivo. I suoi critici, invece, attendono un passo falso per dimostrare che non è pronta.
È la lotta antica tra ambizione e prudenza, tra chi vuole cambiare verso e chi teme di perdere ciò che resta dell’equilibrio interno.
Schlein non può più nascondersi: la maschera della dirigente mite è scivolata via. Ora deve scegliere se indossare quella della leader combattiva o quella, più comoda ma più pericolosa, della mediatrice.
Una cosa è certa:
questa volta non potrà dire “non ci hanno visto arrivare”.
La stanno guardando tutti. E nessuno sarà disposto a farle sconti.