C’è chi, nei corridoi di via della Scrofa, la racconta così: «Giorgia vuole uscire definitivamente dal mito di Colle Oppio e diventare il partito della nazione, con buona pace delle nostalgie». È il nuovo mantra che accompagna la fase due di Fratelli d’Italia, quella che ha un nome e un luogo: Atreju, ma in versione mainstream, ripulita, potenziata, studiata per allargare il perimetro del partito oltre i confini identitari.
Dietro la scenografia della festa – star internazionali, intellettuali, business community invitata come non mai – si muove un progetto politico più ambizioso: aprire definitivamente FdI all’esterno, selezionare nuova classe dirigente e trasformare la leadership di Meloni in un fattore “di sistema”, non più soltanto di schieramento.
È la mutazione controllata del partito. E, come sempre nei retroscena italiani, nulla accade per caso.
Secondo diverse fonti interne, Atreju diventa il laboratorio della normalizzazione lunga, il luogo dove FdI testa messaggi, figure, aperture verso mondi finora rimasti ai margini del melonismo: economia, associazioni professionali, persino pezzi di establishment diplomatico.
Un dirigente lo dice con cinismo: «Se vuoi governare vent’anni non basta l’identità, serve il palazzo. Serve diventare affidabili per chi conta».
È qui che nasce l’idea – non dichiarata, ma molto discussa – di fissare le basi per un ingresso strutturale nello spazio del potere istituzionale, quello che, nei discorsi da bar più fantasiosi, viene ridotto alla formula del “deep state”, ma che nella realtà è un insieme di ministeri, direzioni generali, authority, organismi di controllo, dove si decide la vera continuità dello Stato.
Il ragionamento è semplice: consolidare la presenza di figure vicine a FdI, formare nuovi quadri amministrativi, allargare la rete di competenze. Tutto mentre il partito cresce e serve personale politico in ogni casella, a tutti i livelli.
In questo contesto si innesta un’altra voce che gira insistente: la tentazione del voto anticipato nel 2026. Non un annuncio, non un piano definito, ma un’opzione reale sul tavolo della premier.
Lo scenario è questo: se Meloni dovesse vincere il referendum sulla giustizia, il vento politico cambierebbe. E a quel punto la premier potrebbe decidere di capitalizzare il consenso prima che inizi l’ultimo anno di legislatura, quello in cui – così dicono in FdI – «Salvini farà casino per recuperare voti».
È un tema che agita molto il partito: gli ultimi sei mesi prima della scadenza naturale sono considerati ad alto rischio. La Lega, ormai compressa nei sondaggi, potrebbe spingere sul pedale del confronto, della polemica identitaria, della “differenziazione tattica” per rosicchiare consensi dal bacino comune della destra.
Per evitarlo, qualcuno suggerisce: «Meglio giocare d’anticipo. Meloni ha tutto da guadagnare».
In pubblico il partito nega qualsiasi svolta centrista. In privato, la linea è più sfumata: Meloni deve parlare a tutto il Paese, intercettare voti moderati, rassicurare i poteri economici, ma senza perdere il legame con la base identitaria. Una manovra a tenaglia, complessa, ma potenzialmente vincente.
Ecco perché, nei piani di fase due, ci sono tre obiettivi:
1. Allargamento culturale: via progressiva dalle etichette ideologiche più rigide.
2. Selezione della classe dirigente: nuovi ingressi dal mondo professionale. Allargamento alla società civile.
3. Riposizionamento del partito sul continuum istituzionale: diventare forza affidabile per chi deve garantire la stabilità del sistema.
È il disegno di un partito che non vuole più essere “nuovo”, ma permanente.
Se la fase uno era identità, la fase due è occupare lo spazio del potere in modo stabile e riconoscibile. Atreju è la vetrina, ma la partita vera si gioca dietro le quinte, tra dossier, nomine, proiezioni sul futuro.
Un consigliere sintetizza così: «Colle Oppio è un ricordo romantico. Ora Meloni vuole diventare l’architrave del sistema».
E la domanda finale, sussurrata da giorni, resta una: sarà il 2026 l’anno della mossa decisiva?