Nel 2012 è stato pubblicato Mátate, amor, l’esordio letterario della scrittrice argentina Ariana Harwicz. Una giovane madre, che vive col marito e il figlio, ancora in fasce, in una zona isolata di campagna, inizia rapidamente a sviluppare una grave forma di psicosi, afflitta dal peso della maternità e da un matrimonio infelice. Nelle pagine disturbanti di questo romanzo si solleva via via l’urlo straziante e disperato della protagonista, angosciata dal fardello opprimente della depressione post partum e da un’infelicità che le esplode in petto ogni giorno.
Come colta da un perenne stato d’asfissia, nella mente della donna divampa sovente la rabbia, ritrovandosi a fantasticare atti violenti che possano sedare il dolore che la perseguita in qualunque istante. Quell’ira non le concede tregua, come un incendio sta consumando tutto, riducendo ogni cosa in cenere, riempendole di fumo i polmoni. La collera ora diventa odio, poi furia cieca: turbata da questi sentimenti pieni di veleno, le giornate sono scandite dal ritmo martellante dei suoi pensieri ossessivi. Sempre più ignorata dal compagno, un febbricitante desiderio carnale le fa pulsare la vulva fino a farla impazzire.
Narrato in prima persona, Mátate, amor è il lacerante manifesto della sofferenza femminile e si apre a un linguaggio che nessuno (o quasi) ha mai avuto il coraggio di urlare a gran voce. È una confessione intima, sfrenata, di chi ha perso il senno a tal punto da lasciare correre i pensieri a una velocità in cui non sono contemplati la vergogna o il rimorso. Questa lettura devastante, che non autorizza pause, ha spianato la strada per la nascita della Trilogía de la pasión, composta da altri due brevi romanzi drammatici, La débil mental (2014) e Precoz (2015), che raccontano una maternità che non coincide con l’ideale comune.
Grazie a queste tre opere Ariana Harwicz è divenuta in poco tempo una vera rivelazione per la letteratura contemporanea, al punto da richiamare l’attenzione del rinomato cineasta statunitense Martin Scorsese, che ha voluto acquistare i diritti cinematografici della trilogia. E difatti Scorsese figura proprio tra i produttori del primo capitolo della trasposizione per il cinema: Die, My Love, tratto da Mátate, amor, diretto dalla regista scozzese Lynne Ramsay, presentato in anteprima e in concorso, il 17 maggio 2025, al 78º Festival di Cannes e, il 20 ottobre 2025, alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma.
A differenza del romanzo, la narrazione, anziché essere interiorizzata, si concentra molto sull’estetica e sulle immagini. Le conversazioni sono brevi, inconsistenti, quasi vuote. Il dialogo interiore, che ha reso memorabile quegli scritti pesanti come un macigno, è assente. La storia qui si concentra maggiormente sulla gelosia, su un rapporto d’amore infelice, esausto e tormentato di una coppia all’apparenza bellissima, ma nella sostanza fiacca. La depressione post partum, che era la vera chiave del racconto, non perviene affatto. Il tutto si riduce a due amanti incapaci di lasciarsi, una annichilita dall’evidente fine dei giochi e l’altro non in grado di agire nel modo corretto a tutelare una persona che sta perdendo il senno.
Inoltre ho trovato che la pellicola sia stata sporcata dalla necessità di strafare con una ricostruzione bislacca dall’eccentricità sospinta, per conferire all’opera un’autorevole estrosità a ogni costo. Ma così, purtroppo, la regista ha finito col farsi un autogol, nel tentativo estremo di risultare originale e ricercata. Per citare Verdone, il “lo famo strano” che tanto piace a chi vuole trovare la stravaganza a discapito della riuscita finale. Molto spesso ci si dimentica che un racconto lineare è il modo migliore per arrivare al cuore delle cose.
Peccato, perché con un duo formato da Jennifer Lawrence e Robert Pattinson l’occasione era più che propizia per portare la vittoria a casa. Difatti, entrambe le prove attoriali sono pazzesche. Forse, addirittura, la Lawrence non è mai stata così brava e magneticamente bella in scena come in questo lungometraggio. Si è calata, anima e corpo, nella parte di Grace, regalando all’osservatore uno spettacolo da pelle d'oca. Eppure il film in sé è povera cosa, senza né capo né coda. Ciò che mi fa più arrabbiare è che la Ramsay, creando la sceneggiatura insieme a Enda Walsh e Alice Birch, ha riscritto (male) il soggetto incredibile di Ariana Harwicz, che invece ha avuto il compito importantissimo di sbattere in faccia al lettore un dramma che troppe volte si consuma a porte chiuse, senza che nessuno se ne accorga. Per Die, My Love, con immensa delusione, 2,5 stelle su 5.