28 Nov, 2025 - 10:55

Stop a 67? L'OCSE avverte: “La pensione a 70 anni in Italia è inevitabile”, ecco cosa cambia subito

Stop a 67? L'OCSE avverte: “La pensione a 70 anni in Italia è inevitabile”, ecco cosa cambia subito

Senza interventi strutturali su natalità, salari, qualità del lavoro e immigrazione qualificata, l’innalzamento dell’età pensionabile verso - e in prospettiva anche oltre - i 70 anni non appare più come una scelta politica discutibile, ma come la naturale conseguenza delle regole introdotte nel 2012. Un meccanismo che procede in automatico, indipendentemente da chi governa e secondo parametri ormai consolidati.

Peccato, però, che dietro tabelle, grafici e proiezioni ci siano persone reali: lavoratori che, nella migliore delle ipotesi, vedranno slittare l’uscita dal lavoro di qualche mese; nella peggiore, di diversi anni.

La verità, spesso taciuta, è che il futuro previdenziale degli italiani non dipenderà solo dalle leggi, ma da un equilibrio demografico ed economico sempre più fragile. Ed è qui che emerge la domanda centrale: per chi oggi si affaccia al mondo del lavoro, il vero interrogativo non è più “quando andrò in pensione?”, ma “che pensione avrò?”.

Pensione a 70 anni: perché l’OCSE annuncia l’aumento dell’età pensionabile dal 2027

Secondo le indicazioni dell’INPS, dal 1° gennaio 2027 scatterà un nuovo adeguamento automatico dei requisiti di pensionamento: +1 mese nel 2027, seguito da +2 mesi nel 2028. Tre mesi in tutto, ma sufficienti a mostrare un trend chiaro: i 67 anni non saranno un limite immutabile.

Il nuovo rapporto Pensions at a Glance dell’OCSE va oltre questi numeri e fotografa un percorso già tracciato: l’età di uscita dal lavoro tenderà ad avvicinarsi ai 70 anni, e per le generazioni più giovani potrebbe superare questa soglia.

Non per decreto politico, ma per effetto di dinamiche che si muovono più velocemente della capacità legislativa di adattarsi.

Il desiderio dei lavoratori di una vecchiaia serena e di un assegno dignitoso resta fortissimo. Ma questo si scontra con una realtà che corre a doppia velocità: da un lato le variabili demografiche ed economiche spingono verso età sempre più avanzate; dall’altro, le esigenze quotidiane delle persone finiscono irrimediabilmente in secondo piano.

Il peso della legge Fornero e del meccanismo legato all’aspettativa di vita

Secondo l’OCSE e molti esperti previdenziali, il sistema italiano resta rigidamente ancorato alla riforma Fornero (Legge 214/2011), una norma che segnò una cesura netta con le regole precedenti e che richiese nove salvaguardie per correggerne gli effetti più duri.

Oggi l’età pensionabile dipende dall’aspettativa di vita rilevata dall’ISTAT: se la vita media cresce, crescono anche i requisiti. Un meccanismo pensato per garantire equilibrio finanziario, ma che opera in un contesto profondamente diverso rispetto a quello del 2011.

La combinazione di pochissimi giovani, una popolazione sempre più anziana e carriere discontinue sta erodendo la sostenibilità del sistema a ripartizione, fondato sul principio che i contributi di oggi finanziano le pensioni di chi è già in quiescenza. Un modello che soffre sempre di più la frattura tra generazioni.

Dal retributivo al contributivo: il passaggio che taglia la pensione ai giovani (e non solo)

Il rapporto OCSE non addolcisce la realtà e lo dice con chiarezza: la progressiva applicazione del metodo contributivo - che sostituisce il vecchio sistema retributivo basato sulle ultime retribuzioni - comporta assegni più bassi, soprattutto per chi ha carriere discontinue o redditi modesti.

Per le nuove generazioni, e per chi non ha maturato abbastanza contributi nel vecchio regime, la pensione sarà calcolata esclusivamente sui contributi effettivamente versati, rivalutati e trasformati in rendita mediante i coefficienti di trasformazione.
Questo significa che ogni interruzione lavorativa, ogni salario basso, ogni periodo “vuoto” pesa direttamente sull’assegno finale.

In questo scenario, arrivare a 70 anni di età pensionabile non è solo una questione di sostenibilità per lo Stato, ma anche una necessità per i lavoratori stessi: più anni di contribuzione significano un montante più alto e quindi un assegno più vicino alle esigenze reali delle famiglie.

È un percorso a ostacoli che rischia di lasciare indietro molti.
E la domanda diventa inevitabile: chi riuscirà davvero a lavorare fino a 70 anni - e oltre - nelle condizioni occupazionali attuali?

 

 

  

 

 

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