Rino Gaetano, in occasione di un concerto, prima di cantare Nuntereggae più nel 1979, con una cattiveria nella comunicazione insolita per uno come lui, si fermò sul palco e disse: “ C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta”.

Caro Rino, hai sempre previsto tutto. Stavolta, invece, hai avuto torto. Almeno secondo me, sei stato decisamente troppo ottimista. C’è chi ti adora oggi come all’epoca. Chi si perde nei tuoi testi cercando di scorgere un indizio, un richiamo, una metafora, una poesia.  Ma di gente che ha ancora gli occhi chiusi, Rino mio, non hai idea di quanta ce ne sia.  Anzi, peggio ancora. Non ha gli occhi chiusi. Ha gli occhi pieni di sale. Vede solo ciò che gli vogliono far vedere. Ragazzi rimbambiti dal grande fratello, da uomini e donne, da chi vende sogni a peso d’oro, da chi li vorrebbe tutti belli, ricchi, profumati, vuoti dentro come un romanzo senza contenuto ma dalla copertina perfetta, pronti a correre verso nessun luogo, come su uno di quei tapis ruolan che trovi nelle palestre in cui paghi per faticare.

La comunicazione di massa ha regalato a tutti l’illusione della conoscenza globale; gli ha consentito di sentirsi sicuri di poter sapere e controllare tutto ciò che si vuole, abbattendo le barriere che prima lo impedivano. Solo che queste barriere sono anche mentali, non soltanto fisiche. Quest’ultime sono state abolite, è vero. La tecnologia le ha superate in modo superbo. Ma quelle mentali, invece, ci sono ancora.

Forse era più semplice nei tuoi anni. L’ostacolo era palese, il nemico non si nascondeva,  quasi era lui che ti veniva a cercare. E vedendolo chiaramente, si poteva pensare a come sconfiggerlo.  Oggi è diverso, caro Rino, oggi stiamo molto peggio di quanto tu potessi pensare.  La censura? C’è, ma non si vede. L’ostacolo alla nostra facoltà di comunicare, di informarci, di confrontarci, è molto più subdolo. Abbiamo la convinzione di essere iperconnessi, ipercomunicativi, ma in realtà non diciamo niente di sostanzioso. Viviamo di sterili cinguettii continui in cui giochiamo a sentirci patinati protagonisti di una vita, quella che ci impone la televisione, che giochiamo a fare anche se non ce la possiamo permettere.

Siamo arrivati al paradosso: con Internet possiamo parlare in qualsiasi momento con chiunque. Solo che non abbiamo più niente da dire.

Vuoti dentro e colorati fuori, finché c’è da fare un selfie o da scattare una foto al piatto di spaghetti che stiamo per mangiare, indossiamo il nostro vestito migliore e diamo spettacolo. Se c’è da andare oltre, invece, cala il sipario. Su attori distratti di uno spettacolo dal copione scontato e banale.

Perché è talmente pubblica la piazza, talmente pericoloso andare fuori dagli schemi, che seppure abbiamo qualcosa da dire, di serio, di sincero, di autentico, preferiamo tenerla per noi, pur di non correre il rischio di essere “diversi”, lontani dal glamour, reali.

“A te che sogni una stella ed un veliero”, a te che ora, ne sono sicuro, ci osservi da lì, da quel cielo più vero, brilleranno gli occhi nel vedere un adolescente che canticchia le tue canzoni e ignora Justin Bieber, ma guardando questa società delle “apericene” da una botta e via, della tua era fatta di chitarre e melodie da urlare forte, verrà una gran malinconia.