Gli attacchi aerei condotti da Stati Uniti e Israele contro i siti nucleari iraniani hanno segnato una svolta storica nel conflitto in Medio Oriente, ma la domanda centrale resta: hanno davvero distrutto la capacità nucleare dell’Iran?
Secondo le analisi e i resoconti pubblicati dal New York Times, la realtà è più complessa e meno definitiva di quanto dichiarato dai leader politici coinvolti.
Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, forze aeree americane e israeliane hanno colpito tre siti chiave del programma nucleare iraniano: Fordo, Natanz e Isfahan.
Il presidente Donald Trump ha rivendicato un successo totale, affermando che le installazioni nucleari sono state “completamente e totalmente obliterate” e che l’Iran non rappresenta più una minaccia imminente. Anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha celebrato l’operazione come un trionfo storico e una garanzia di sicurezza per Israele.
Tuttavia, né la Casa Bianca né il Pentagono hanno fornito prove immediate a sostegno delle dichiarazioni di distruzione totale. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha confermato che non si sono registrati aumenti di radiazioni nei pressi dei siti colpiti, segnalando che le strutture nucleari non sono state completamente annientate.
Un rapporto preliminare e riservato del Dipartimento della Difesa statunitense, citato dal New York Times, offre un quadro più cauto: i bombardamenti hanno effettivamente sigillato gli ingressi di due impianti sotterranei, ma non sono riusciti a far crollare le strutture profonde dove si trova il cuore delle attività nucleari iraniane.
Secondo gli analisti, i raid hanno ritardato il programma nucleare dell’Iran di alcuni mesi, ma non lo hanno cancellato. Prima degli attacchi, l’intelligence americana stimava che l’Iran avrebbe potuto produrre un’arma nucleare in circa tre mesi; ora, la tempistica si è allungata di meno di sei mesi.
Inoltre, una parte significativa delle scorte di uranio arricchito sarebbe stata trasferita dagli iraniani in siti segreti prima dei bombardamenti, riducendo l’impatto reale degli attacchi sulle riserve di materiale fissile.
Alcuni esperti sottolineano che la distruzione di macchinari per la metallizzazione dell’uranio a Isfahan rappresenta un ostacolo tecnico importante, poiché questa fase è cruciale per la realizzazione dell’esplosivo nucleare, ma non elimina la capacità dell’Iran di riprendere il programma in futuro.
L’Iran, attraverso l’Agenzia per l’Energia Atomica e il Ministero degli Esteri, ha denunciato gli attacchi come una “aggressione selvaggia” e ha promesso che il programma nucleare continuerà.
Le autorità di Teheran hanno anche annunciato azioni legali internazionali contro Stati Uniti e Israele, e minacciato conseguenze durature per la sicurezza regionale.
Sul fronte interno, la popolazione israeliana ha vissuto momenti di tensione, con il paese in stato d’emergenza per il timore di ritorsioni iraniane.
Gli esperti militari avvertono che l’Iran potrebbe rispondere con attacchi contro basi americane o contro il centro nucleare israeliano di Dimona, oppure accelerare clandestinamente il proprio programma nucleare.
Nonostante la retorica trionfalistica, l’analisi del New York Times e degli esperti di non proliferazione suggerisce che i bombardamenti hanno inflitto danni seri ma non irreparabili al programma nucleare iraniano.
Le strutture più profonde, come quella di Fordo, sono state progettate per resistere anche alle bombe più potenti, e solo gli Stati Uniti dispongono delle armi necessarie per colpirle efficacemente.
Il vero risultato dell’operazione, secondo gli analisti, è un rallentamento temporaneo delle ambizioni nucleari iraniane, non la loro eliminazione. L’Iran conserva ancora know-how, personale specializzato e parte delle riserve di uranio, elementi che potrebbero consentire una ripresa delle attività in tempi relativamente brevi.
In definitiva, la “distruzione” dei siti nucleari iraniani proclamata da Usa e Israele appare, alla luce dei fatti, più una vittoria politica e simbolica che un colpo definitivo alle capacità atomiche di Teheran. Il rischio di una nuova escalation resta alto, così come la possibilità che la crisi nucleare iraniana si ripresenti in futuro, magari in forme ancora più difficili da contenere.