Mentre il mondo cattolico piange Papa Francesco, nella Basilica di San Pietro va in scena una passerella che ha il sapore amaro della diplomazia da copertina.
Donald Trump e Volodymyr Zelensky, seduti uno di fronte all’altro tra le navate, si fanno immortalare in una foto che tutti i media definiscono “storica”.
Il tutto mentre, a poche migliaia di chilometri, Vladimir Putin annuncia trionfante la “completa liberazione” della regione di Kursk, issando la bandiera russa sull’ultimo insediamento conteso e proclamando la disfatta totale delle forze ucraine.
Due mondi che si sfiorano senza toccarsi, due narrazioni che si rincorrono senza incontrarsi. E nel mezzo, un’Europa che applaude, si commuove e si illude.
L’immagine di Trump e Zelensky, seduti su due sedie tra le navate della basilica, è diventata virale in pochi minuti. I due leader, che si erano scontrati duramente solo due mesi fa nello Studio Ovale, ora si mostrano raccolti, quasi intimi, mentre discutono di pace e futuro in Ucraina.
La Casa Bianca parla di un colloquio “molto produttivo”, Kiev lo definisce “costruttivo”, Parigi addirittura “positivo”. Zelensky, sempre abile nel comunicare, twitta che l’incontro “potrebbe diventare storico se si raggiungessero risultati congiunti” e auspica un “cessate il fuoco completo e incondizionato”. Ma la realtà, come spesso accade, è più dura della retorica.
La verità è che questo faccia a faccia, durato appena quindici minuti, è stato più una performance che un negoziato. Un gesto simbolico, certo, ma vuoto di contenuti reali: Trump è ripartito subito dopo i funerali, il secondo incontro annunciato non c’è mai stato.
Nel frattempo, Zelensky ha incontrato Macron, Starmer, von der Leyen, Meloni. Tutti a stringere mani, a promettere sostegno, a ribadire l’impegno per una “pace giusta e duratura”. Ma la guerra, fuori dalle mura vaticane, non si ferma.
Mentre i riflettori sono puntati sulla “foto storica” di San Pietro, Putin gioca la sua partita e annuncia la riconquista totale della regione di Kursk.
Il capo di Stato maggiore russo, Gerasimov, riferisce che “l’ultimo insediamento” è stato liberato, la bandiera russa sventola a Gornal, e le perdite ucraine ammonterebbero a oltre 76mila tra morti e feriti.
“La sconfitta completa del nemico nella regione di confine di Kursk crea le condizioni per ulteriori azioni di successo delle nostre truppe in altre importanti aree del fronte e avvicina la sconfitta del regime neonazista”, proclama Putin.
Kiev smentisce, parla di “propaganda”, sostiene che a Kursk si combatte ancora e che non c’è alcuna minaccia di accerchiamento.
Ma la sostanza non cambia: mentre l’Occidente si abbandona ai riti della diplomazia spettacolo, Mosca avanza sul terreno. E il messaggio che arriva dal Cremlino è chiaro: la guerra non si vince con le strette di mano sotto le volte della basilica, ma con i carri armati e le trincee.
C’è qualcosa di profondamente disturbante in questa coreografia globale. Il funerale di un Papa, che avrebbe dovuto essere momento di raccoglimento e riflessione, si trasforma in passerella per leader in cerca di legittimazione e visibilità.
Trump e Zelensky, con Macron e Starmer a fare da comparse, si contendono la scena a colpi di dichiarazioni altisonanti e fotografie studiate.
Ma dietro le quinte, il copione è sempre lo stesso: l’Europa si illude di poter dettare i tempi della pace, l’America cerca di salvare la faccia dopo mesi di ambiguità, l’Ucraina chiede aiuto e la Russia conquista territori.
La “pace” evocata a San Pietro è più un’idea che una prospettiva reale. I negoziati, se mai ci saranno, dovranno fare i conti con la realtà del fronte, con le condizioni imposte da Mosca, con le divisioni interne all’Occidente.
Zelensky, ancora una volta, si trova a recitare la parte del leader resiliente, ma la sua posizione è sempre più fragile. Il piano di pace americano – che prevede la rinuncia alla Crimea e il congelamento del fronte – è stato respinto da Kiev, e Trump non ha nascosto il suo scetticismo: “Con questo atteggiamento combatterà altri tre anni e perderà ciò che gli resta del Paese”.
Alla fine, resta una sensazione di vuoto. La geopolitica si è fatta reality show, la diplomazia è diventata spettacolo. I funerali di Papa Francesco, invece di essere occasione di unità e riflessione, sono stati colonizzati dalla narrazione di potenza, dalla ricerca della foto perfetta, dal bisogno di apparire.
Putin lancia il suo proclama mentre Trump e Zelensky si scambiano sguardi intensi sotto i mosaici vaticani. E l’Europa, ancora una volta, si trova a fare da spettatrice impotente.
Forse, tra qualche anno, guarderemo a questa giornata come a un’istantanea della decadenza occidentale: leader impegnati a recitare la parte dei pacificatori mentre perdono terreno sul campo; una guerra che si decide lontano dai riflettori, mentre le telecamere inquadrano le passerelle del potere. E intanto, a Kursk, si continua a morire. Ma questo, nelle foto di San Pietro, non si vede.