E’ il 15 aprile 1978. Il Verona rischia di entrare nei libri di storia, come il Grande Torino o il mitico Manchester United. Non per un’impresa calcistica, ma per una tragedia ferroviaria. L’intera squadra, infatti, viaggia sulla “Freccia della Laguna”. A Murazze di Vadeo, a causa dello smottamento di una collina, il locomotore dell’Espresso 572 bis, Bari-Trieste, proveniente da sud, deraglia finendo di traverso sui binari della direttrice Nord-Sud. In pochi attimi si consuma la tragedia: uscito da una galleria, bucando la pioggia a centodieci chilometri orari, il rapido “La Freccia della Laguna”, con quattrocento persone a bordo, incontra sulla sua traiettoria l’altro treno riverso sui binari. L’impatto è devastante. I resti disintegrati delle motrici e le prime carrozze del rapido volano nel vuoto sbriciolandosi, dopo un volo di 20 metri. Le carrozze retrostanti scivolano lungo la scarpata. L’Espresso Bari-Trieste invece rimane sui binari, immobile, col suo carico di passeggeri, sotto shock, ma incredibilmente illesi. Solo la locomotiva viene dilaniata dall’urto.
I quattro macchinisti muoiono sul colpo. Dei loro corpi, orrendamente straziati, tra lamiere contorte e terriccio, vengono ritrovati solo brandelli di carne e ossa, mescolati a pezzetti di tuta blu. Il bilancio è tragico: 48 morti e 76 feriti.
Ai piedi della scarpata, parallela alla ferrovia, corre l’Autostrada del Sole. Gli automobilisti vedono le carrozze volare dall’alto verso di loro e danno immediatamente l’allarme. L’autostrada del Sole viene immediatamente chiusa al traffico. In pochi istanti, quindi, l’Italia si trova praticamente divisa in due, bloccata sia su strada che su rotaia. Questo è il ricordo di quella tragica giornata di Arcadio Spinozzi, uno dei giocatori del Verona presenti sul treno e miracolosamente scampati alla più grande tragedia ferroviaria italiana degli ultimi 50 anni.
 
Dovevamo raggiungere la capitale in aereo per disputare l’incontro di campionato con la Roma. Il volo, da Verona Villafranca per Roma, era stato cancellato per le avverse condizioni meteorologiche che da alcuni giorni flagellavano il centro-nord. Così, la società decise di farci viaggiare in treno per non correre rischi inutili e per evitare ritardi. Il presidente Garonzi non scelse un treno qualsiasi, ma “La Freccia della Laguna”, antesiniana dell’attuale Freccia Rossa..
Mentre noi partivamo da Verona, l’Espresso 572 bis, partito il giorno prima da Bari, e diretto a Trieste, era stato costretto ad abbandonare la linea adriatica per il crollo di un ponte. Dirottato su Roma, il Bari-Trieste avrebbe dovuto, dopo lo scalo a Firenze, passare gli Appennini e giungere a Bologna. L’arrivo nel capoluogo emiliano era previsto con oltre venti ore di ritardo.
“La Freccia della Laguna”, malgrado il temporale, viaggiava invece con una puntualità inusuale sia per quei tempi che per le condizioni metereologiche. Dopo la sosta a Bologna, riprese la sua corsa verso Firenze. Tutto procedeva tranquillamente. La nostra carrozza era la prima, quella attaccata al locomotore. La presenza a bordo della squadra creava curiosità e entusiasmo tra i passeggeri del treno,, soprattutto tra i più giovani e tra quelli veneti. Qualcuno scattò foto ricordo. Alcuni compagni di squadra chiacchieravano tranquillamente con alcuni passeggeri, mentre altri leggevano i giornali. Io, Superchi, Negrisolo, Maddè e Logozzo giocavamo a carte. Tra una mano e l’altra scambiavo qualche parola con una ragazza bresciana seduta proprio a fianco a me. Un bambino veronese ci chiese garbatamente l’autografo e rimase lì imbambolato, a vederci giocare. Poi arrivò l’annuncio dell’altoparlante. La nostra salvezza:
“I passeggeri prenotati al primo turno sono pregati di raggiungere il vagone ristorante”.
“Potevano inserirci nel secondo turno, che iella!”, borbottai, senza sapere che quella voce mi stava salvando la vita.
Tra le mani avevo le carte buone per vincere la partita. Evitai di esprimere in modo più colorito il mio disappunto per esser stato interrotto proprio sul più bello, solo a causa della presenza al mio fianco di quella ragazza. Lei non faceva parte del primo turno. Doveva attendere quello successivo per mangiare. Tutta la squadra, dirigenti, staff tecnico e giocatori, lasciò quel primo maledetto vagone. Io e Sergio Maddè rimanemmo per qualche istante nella carrozza. Invitammo la nostra compagna di viaggio a seguirci nel vagone ristorante. Insistemmo a tal punto che lei decise di accompagnarci. Senza prenotazione probabilmente l’avrebbero rispedita indietro: se stava insieme a noi, probabilmente le avrebbero trovato un posto. Il bambino di Verona, che aveva seguito la scena, implorò la mamma affinché lo lasciasse venire con noi. Per lui era un sogno stare vicino ai calciatori della sua squadra. Assicurai alla signora che avremmo avuto cura del figlio. Ma la donna fu irremovibile. Il ristorante sembrava non arrivare mai.
“Potevano sistemarlo vicino al locomotore”, pensai.
Finalmente arrivammo alla sesta carrozza. Un inserviente ci venne incontro. Gli chiesi se la nostra ospite poteva pranzare con noi, al primo turno. Le poltrone erano tutte occupate. Lo pregai di sistemarla vicino alla porta, nello spazio riservato agli addetti al servizio. Dopo una breve esitazione, acconsentì. Una potenza benigna superiore, una legge suprema indipendente dalla nostra volontà, liberò la ragazza dal fantasma della morte che le aleggiava sulla testa.
Seduto, guardavo fuori dal finestrino. Il cielo era coperto da nuvole scure. Pioveva a dirotto e fuori faceva molto freddo. Sembrava di essere all’imbrunire in pieno inverno. Invece erano appena le 13,35 di un giorno di primavera. All’improvviso successe qualcosa. La prima sensazione fu di un ostacolo improvviso, di una frenata brusca, ai limiti delle possibilità di quel treno modernissimo. Il cameriere, che stava poggiando i piatti sul tavolo, volò dietro alle mie spalle. Mi sentii schiacciare contro lo schienale della poltrona. Nella carrozza volava di tutto. Piatti, bottiglie e bicchieri andarono in frantumi e l’amico Klaus Bachlechner mi rovinò addosso. Mentre tutto intorno andava in frantumi o si sgretolava, la carrozza, come impazzita, si sollevò dai binari e, dopo il tonfo della ricaduta, continuando la sua inarrestabile corsa, cominciò ad oscillare violentemente. Il fragore dei rottami si mescolò alle grida strazianti dei viaggiatori. Ero sballottato da una parte all’altra senza alcuna possibilità di reggermi da qualche parte, di poter reagire a quell’imprevisto. Presi dei colpi terribili, ovunque, ma ero talmente sorpreso e frastornato da non provare nessun dolore. La furia improvvisa e violenta di quel mostro ferruginoso dominava il mio corpo, non la mia mente. Per trenta, forse quaranta interminabili secondi pensai che ero arrivato al momento del giudizio, che stavo per perdere la vita. Riuscivo solo a pensare che non potevo morire a 24  anni, che era un destino troppo crudele! Pensai ad un attentato terroristico (in quel tratto ferroviario era già successo)! Pensai ad un deragliamento dovuto alla pioggia, ad una collisione con un altro convoglio. Ma che importanza poteva avere? Stavo per morire. Riuscivo a pensare solo a questo e ai miei genitori. Pensavo solo che pochi istanti mi separavano dal silenzio eterno della morte. Arrivai pure a chiedermi che cosa avrei provato al momento della dipartita. Forse un impatto mi avrebbe dilaniato. Se fosse stato, non avrei sofferto più di tanto. Incredibile come in pochi istanti la mente possa viaggiare in questo modo. Incredibile come pochi secondi possano sembrare in certe occasioni quasi ore. La carrozza rallentò la sua caduta nel vuoto. Si posò su un lato e continuò a scivolare in basso, ma sempre più lentamente. Poi un paio di oscillazioni, segno di equilibrio ancora precario, poi tutto si fermò, come l’immagine di un film bloccata su un fotogramma con il telecomando. Ero disteso, immobile, in uno spazio angusto intriso di polvere e fumo. Sotto di me, macerie, lamiere contorte, fango, sassi e gente, tanta gente, che lanciava disperate grida di aiuto. Tutto era in frantumi, solo il vetro del finestrino sopra la mia testa era integro. Urlai a Maddè di romperlo con un sasso. Sergio, anche lui sotto choc e in una posizione precaria, non riuscì a sfondare il finestrino. Giù, tra le macerie, vidi le lamiere squarciate; più in basso, il fango della scarpata. Infilai le gambe nel buco. Con i piedi smossi la terra per creare un piccolo cunicolo. Strisciai con la schiena tra la melma. Il vagone era per metà sospeso nel vuoto. Con il petto sfioravo la lamina contorta della facciata esterna. Bastava una leggerissima oscillazione per restare schiacciato dall’enorme massa di metallo ferroso. Un ultimo sforzo, una spinta con i gomiti e mi trovai fuori dall’inferno, all’aperto. A poca distanza, riverso a terra, immobile, c’era il dirigente accompagnatore della squadra, Nello Nuvolari, sbalzato fuori dal finestrino. Il volto intriso di sangue, il braccio spezzato in più punti. Pensai fosse morto. Mi alzai e corsi verso il basso per raggiungere il fondo della scarpata. I piedi affondavano nella melma. Caddi più volte. Rotolai per alcuni metri. Mi rialzai. Vicino, in mezzo al fango, pezzi di treno, corpi smembrati, gambe e braccia strappati di netto. Uomini, donne e bambini schiacciati da tonnellate di ferraglie. Rivoli di sangue, assorbiti dalla terra, diventavano fango. Ai piedi della scarpata c’era l’autostrada. Sconvolto, salii l’argine dell’A1 e, senza scarpe né giacca, con i pantaloni e la camicia strappati e ricoperti di melma, mi misi a correre sull’asfalto dando fondo a tutte le energie che avevo in corpo. Corsi come impazzito tra le auto, sotto la pioggia, fino a quando mi sostennero le forze. Perse tutte le energie, mi fermai. Rimasi immobile, seduto, per alcuni minuti, poi lentamente tornai indietro. Il traffico era stato bloccato su entrambe le carreggiate. Incontrai l’allenatore, Ferruccio Valcareggi, sorretto da alcuni automobilisti. Aveva tre costole fratturate. Raggiunsi il luogo dell’incidente. Dalla massicciata dell’autostrada, vidi uno scenario apocalittico. I resti disintegrati delle due motrici e delle carrozze deragliate erano davanti ai miei occhi, a pochi metri di distanza. Sembravano sventrate, sbriciolate da una terribile esplosione. C’erano morti dappertutto, corpi straziati, feriti che urlavano invocando aiuto: e sangue, tanto sangue. Qualcuno, sfigurato, con ferite su tutto il corpo, usciva come un fantasma barcollando dai rottami e poi piombava a terra moribondo. Tre ragazzi giapponesi erano stretti alle gambe del papà morto, con il corpo schiacciato dalle pesantissime assi del convoglio. I soccorsi furono immediati. Sulla corsia nord dell’A1 transitavano agenti della polizia stradale e una colonna di paracadutisti a bordo di automezzi militari. Lo slancio di quei ragazzi fu spontaneo e commovente. Cercavano disperatamente di salvare vite che una grande mano aveva già deciso di strappare da questa vita terrena. Anche le persone che abitavano nelle contrade limitrofe fecero l’impossibile per dare una mano ai feriti, per confortare i superstiti. La gente di Vado accorse sotto la pioggia. Le auto dei primi soccorritori slittavano sulla fanghiglia. Portarono i feriti a Bologna. La stessa cosa fecero molti automobilisti in transito sull’autostrada. In poco tempo arrivarono sul posto le ambulanze, ma il personale, per raggiungere e caricare i feriti, dovette farsi strada in mezzo al fango, tra cadaveri e lamiere contorte.
In quella bolgia dantesca, mi trovai davanti il compagno di squadra Ennio Fiaschi. Nella collisione era stato sbalzato fuori dalla carrozza. Ennio, sbigottito, gridava che molti compagni di squadra erano ancora intrappolati tra le lamiere.
Accorse anche il parroco di Vado: diede l’estrema unzione ai moribondi e, in una confusione indescrivibile, benedì alcune salme. Poi, riunì la massa di superstiti e li accompagnò in una piccola chiesetta di campagna. Decine di sventurati si rifugiarono lì. Io e tanti altri restammo fuori, sotto la pioggia, al freddo. Cercai di radunare la squadra. All’appello mancavano diversi compagni. Non potevamo resistere a lungo in quelle condizioni. Decidemmo di tornare sull’autostrada e raggiungere, con qualsiasi mezzo, il Cantagallo, il grande autogrill che si trovava a pochi chilometri da Bologna. Salii su un autocarro insieme a Klaus Bachlechner. Il camionista ci offrì una tazza di caffè caldo da un thermos. Poi, vedendoci tremare per il freddo che ci stava entrando nelle ossa, ci diede due coperte. Entrammo al Cantagallo ancora sporchi di fango e con le coperte addosso. I vasti locali erano invasi da centinaia di persone, pigiate tra loro, che cercavano di mettersi in contatto telefonico con le famiglie. La radio, interrotti i programmi, aveva dato la notizia e ora, in diretta, stava dando degli aggiornamenti sulla tragedia:
“Un treno è volato fuori dai binari sulla Bologna-Firenze. Ci sono molti feriti. E ci sono purtroppo anche dei morti”.
“Quanti?”, chiesero all’inviato, dallo studio.
“Molti. A quanto pare ci sono molti morti. Al momento è impossibile contarli. Tutto quello che si vede è fango misto a sangue, pezzi di vagoni ferroviari e corpi dilaniati dalle lamiere. Sul treno viaggiava anche la squadra del Verona diretta a Roma. Nessuno sa nulla della sorte dei calciatori”.
Tra la calca, vidi il volto di quella ragazza di Brescia. Aveva la faccia sconvolta. Ci guardammo per un lunghissimo istante, poi, con le lacrime agli occhi, senza parole, mi buttò le braccia al collo e mi disse solo “grazie”. Un grazie ripetuto non so quante volte. Se non fosse venuta con noi nel vagone ristorante, sarebbe sicuramente morta. Non la rividi più.
Passarono le ore. E con il passare del tempo l’ansia per la sorte dei compagni di squadra che mancavano all’appello svanì. Eravamo tutti sotto choc, qualcuno era ferito in modo leggero, ma eravamo incredibilmente tutti vivi.

Stefano Greco